Epitaph

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  1. ~ Ritux
     
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    Parte 2



    ***




    “I miei complimenti”.



    “No”.



    “Come, scusi?”.



    Scintilla.

    Ed eccola lì mentre, piano, illumina le antiche stanze dell’edificio che ho eretto nella mia mente. Riesco a vederla mentre illumina i corridoi sfidando le leggi della fisica.



    Improvviso momento di stupore: Mycroft mi osserva incuriosito, La Donna si irrigidisce di scatto.



    “Ci era andata vicino, ma no” (il mio corpo come un vettore). “Si è lasciata trascinare, il gioco era troppo elaborato. Si stava divertendo troppo” (l’illuminazione, oh sì, quella sì che è paragonabile alla droga).



    “Per me non esiste la parola troppo” (i miei occhi che osservano il corpo di Irene Adler indietreggiare mentre gioca le sue ultime carte).



    “Godersi il brivido della caccia va bene” (vedo i suoi muscoli irrigidirsi), “desiderare la distrazione del gioco lo posso capire” (cerca di mantenere il contatto visivo con difficoltà), “ma i sentimenti? I sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde” (deglutisce mentre abbozzo una smorfia).



    “Sentimenti?” (ha bisogno di più informazioni, trova difficile scegliere la tattica più adatta senza sapere cosa io realmente so riguardo questa situazione). “Di cosa sta parlando?”



    “Di lei”.



    “Oh santo cielo” (ha scelto la tattica della beffa). “Ma povero uomo…” (riesco a vedere come acquista sempre più sicurezza in ogni sua parola). “Davvero credeva che fossi interessata a lei? Perché? Perché lei è il grande Sherlock Holmes, il detective con il cappello buffo?” (mi osserva con superiorità, ma teme la mia risposta).



    “No”.



    Mi avvicino. L’ultima volta che sono stato così vicino ad una persona risale, ormai, a parecchi mesi fa. Mentre le mie dita scivolano sul suo polso (per confermare le mie deduzioni) ecco che quella scintilla apre le porte di quelle stanze che avevo ormai chiuso. Ricordi di momenti di irrazionalità (ricordati: feniletilamine).



    Le mie labbra a pochi centimetri dal suo padiglione auricolare. Riesco a sentire le sue gocce di sudore scendere lente lungo le tempie.



    Il polso. Lo sento (lo riconosco).



    “Perché le ho preso il polso” (il polso diventa via via più accelerato sotto le mie dita).



    Scorrono nella mia mente le immagini della sera prima (una sentimentale partita a scacchi), ma adesso, proprio adesso, sembra che si stiano sovrapponendo ad essi ricordi provenienti da particolari stanze del mio palazzo mentale.



    Il volto di Irene Adler si alza verso il mio (occhi grandi, sopracciglia rivolte verso l’alto).



    “Accelerato” (il polso), “le sue pupille dilatate…” (momento di esitazione).



    Mi godo gli istanti in cui lascio che La Donna crolli. Lo farà. E’ questione di minuti.



    Prendo quel cellulare sulla scrivania, spingo un suono verso le labbra.

    Interruzione.

    La mia mente si sofferma sul suo volto, così simile a quello del mio dottore nei momenti, in quei momenti, in cui non sono stato il suo investigatore (“Fantastico!”). La mia mente sovrappone le sopracciglia della Adler rivolte verso l’alto a quelle labbra di John rivolte verso il basso.

    Per un attimo mi sembra di risentire la sua rabbia sulla mia pelle.



    “Immagino che per Watson l’amore sia un mistero per me, ma la chimica è molto semplice e davvero distruttiva” (mentre cammino ripercorro quei tracciati di lacrime, non mie, sul mio viso).

    Non mi fermo, vado avanti. Mi volto.

    “Quando ci siamo conosciuti ha detto che il travestimento è un autoritratto; il codice della cassaforte erano le sue misure; questo, invece, è molto più intimo: è il suo cuore, non dovrebbe permettere che guidi la sua testa” (scrivo le prime lettere su quel cellulare).



    Gli angoli della sua bocca si sono adesso piegati verso il basso.



    “Avrebbe potuto scegliere numeri a caso e andarsene con tutti i suoi segreti” (continuo a bruciare i tasti di quel cellulare con rabbia e rimorso).



    Spezzare il cuore (in questo momento riesco a vedere le mie mani nel suo petto mentre stringo, stringo forte per la rabbia, per il rancore, per il rimorso, per i rimpianti). Le sto spezzando il cuore, le sto distruggendo la mente, sto gettando la sua vita per l’ebrezza della vittoria, per l’esaltazione della mia mente.



    “Ma non ha saputo resistere, vero?” (sorrido).



    Riesco a sentire la rabbia nelle vene.



    “Ho sempre sostenuto che l’amore fosse uno svantaggio pericoloso” (l’irrazionalità di quei baci). “Grazie per avermene dato prova” (spingo ancora su quei tasti).



    Rabbia.

    Non ho saputo amarti, John.

    L’amore è così pericoloso, così irrazionale, così distruttivo (e conosco la sua chimica sulla mia pelle, nella mia mente, nel mio corpo).

    Rabbia, ancora rabbia.



    Scrivo le ultime lettere quando le sue mani si posano sulle mie (con vigore). Sembra stia per piangere (quanto piangesti quella sera, John?).



    “Tutto quello che ho detto non è reale. Stavo solo facendo il mio gioco” (le trema la voce).



    Sento che la mia rabbia è arrivata al culmine. Desiderio di lasciare che crolli (una sorta di vendetta, una sorta di sfogo). Desiderio di godere del suo volto alla fine di questo caso.



    “Lo so” (una smorfia di superbia). “E questa è la sua sconfitta” (alzo il cellulare per mostrarle quanto sono stato più avanti di lei).



    Lacrime (come quelle di John).

    Bruciano, anche se non sono sul mio viso.



    Deglutisco (dura così poco la soddisfazione di aver stroncato una mente brillante?).



    Non riesco a godere del suo volto (piange). Provo una insolita sensazione di dolore.



    Disturbo.

    Con lei (lo sento) ho fatto di peggio: ho distrutto la sua mente, spezzato il suo cuore e spento le luci della sua vita. Durerà poco, la uccideranno (fino a quando ci sarò io, John non vedrà nemmeno la sagoma della morte).



    La rabbia scivola via (ormai il presente e il passato si sovrappone creando nuove immagini).



    Non riesco gioire, non mi esalto.

    La mia rabbia scema in sentimento indefinito simile alla delusione, ma anche molto vicino alla rassegnazione e alla compassione. Come lo definiscono gli altri?

    Confuso.



    “Prendilo, Mycroft. Spero che il contenuto rimedi agli inconvenienti che ho causato questa sera”.



    (“Ne sono certo”).



    “E’ meglio arrestarla, se la lasci andare non sopravvivrà senza protezione”. Tentativo di sopprimere il mio indefinito sentimento.



    “Si aspetta da me che io la implori?!” (alza la voce, accenna qualche passo avanti verso di me).



    Mi fermo.



    “Sì”. Secondo tentativo di sopprimere il mio indefinito sentimento.



    “La prego” (la sua voce si blocca di scatto). “Ha ragione” (mi volto). “Non sopravvivrò sei mesi”.



    Nei suoi occhi tutta la storia di John Watson e me.

    Confuso.



    “Mi dispiace per la cena”.



    Il mio corpo fuori dalla mia stanza (la mia mente ricostruisce le finestre rotte nelle stanze dove albergano i ricordi che riguardano quella relazione tra me e lui).





    Come un vettore la cui origine parte dalla testa (impegnata a ricostruire pezzi rotti e impossibili da riaggiustare) e di cui l’estremo libero è il cuore (spezzato, stremato, sofferente).





    ***




    Un modo per espiare le mie colpe.

    La pioggia batte forte sugli infissi di tutta Londra (un sorriso sulle mie labbra quando scorro quell’ultimo messaggio).



    Addio Signor Holmes.



    Quasi mi sembra di sentire John mentre inizia i suoi discorsi sul destino, sull’assenza quasi totale della casualità (irrazionale, e oserei dire anche romantico); La Donna (un bel caso), utile (per lasciare che rifletta sui miei comportamenti).



    Le persone; io le persone le ho sempre usate, possedute, buttate (fastidio per alcune gocce d’acqua sulle finestre).



    John Watson è importante per me (tanto quanto lo sono io per La Donna).



    Non ho saputo trattare John come una persona (esattamente come non ho saputo trattare La Donna come una persona).



    Oggetti.



    Soddisfazione psicologica (per me) da parte di entrambi.



    Ho distrutto due menti, due cuori (per poi lasciare che mi facessi compagnia con le droghe).



    Un modo, il mio, di salvare ciò che poteva ancora essere salvato (per dire a me stesso che salvare quel rapporto non era impossibile).



    Ritorno a poco tempo fa.

    Le sue mani che tremano mentre scrivono l’ultimo messaggio. I suoi occhi, serrati ormai, che si rifiutano di guardare ciò che li aspettava.



    Un rischio.



    (“Quando ti dico “corri”… corri!”).



    L’avessi fatto con te, John, forse oggi potrei continuare a stringerti (come se fossi una persona, non un oggetto da possedere).



    Mi lascio sfuggire un ultimo sorriso.

    Un apparente barlume di speranza, l’idea di un tentativo (tutto nuovo, diverso).



    Nella mia mente John ha appena finito di parlare del destino (finalmente).



    Io ho espiato una colpa, tu hai acceso una speranza.



    La Donna, l’unica donna.





    ***




    Gocce di pioggia sui vetri del 221b. Soggiorno. Poltrona rivolta verso il camino. Tazza (caffè) nella mano destra. John arriva dalla cucina (capelli bagnati).



    “Quindi hai deciso che le chiederai di sposarti” (continuo a osservare il fuoco).



    Momento di silenzio (sette secondi).

    “Eh, sì” (si siede sulla poltrona). “Ma non ora, no” (si mette le mani nei capelli).



    Lascio che passi qualche secondo prima di iniziare di nuovo a parlare (silenzio).

    “Perché?” (bevo).



    “Non vorrei fare la fine di mia sorella…” (ride). “Sai, un matrimonio prevede impegno, costanza, determinazione… non sono ancora completamente sicuro di avere la forza necessaria per fare questa scelta, per cambiare di punto in bianco la mia vita, e-”

    “I casi. Ricordati dei casi”.

    Lo interrompo bruscamente.

    Mi guarda, apre la bocca (vuole dirmi qualcosa).



    “Se sono i casi la tua preoccupazione, comunque, sappi che non potrei mai smettere di lavorare con te” (ha optato per una frase diversa da quella che voleva dirmi in precedenza, suppongo per evitare di creare ulteriori polemiche).



    Bevo.



    Lo guardo, non parla. Non vuole. Non importa.

    “Ridurresti, di conseguenza, ciò che c’è tra te e me ad un mero rapporto lavorativo?”.



    Mi guarda, per pochi secondi. Poi si alza, fa avanti e indietro, si volta verso la cucina, poi ritorna (impiega circa 18 secondi).



    “Cosa credi che ci sia tra me e te? O almeno, cosa credi che ci sia ancora?!” (alza la voce, allarga le braccia, si sporge in avanti).



    Bevo (ultimi sorsi).



    Decido di mia spontanea volontà di non rispondere alle sue domande (piuttosto preferisco scavare nel mio palazzo mentale per risolvere il quesito da lui posto).



    Rimando (osservo John allontanarsi dalla stanza).



    Afferro il giornale, leggo la testata in prima pagina (“Arrestato l’assassino della tredicenne Ann McGinty”). Sorrido. Continuo a leggere alcune frasi all’interno dell’articolo (“L’ispettore Gregory Lestrade di Scotland Yard…”). Che caso terribilmente semplice (“Un caso che ha stremato il DI Lestrade e tutti i suoi collaboratori”). D’altro canto l’assassino si è comportato come hanno fatto tanti prima di lui (“Birdy Edwards, l’assassino della tredicenne, risponderà in tribunale del caso che ha coinvolto tutte le forze di Scotland Yard in questi ultimi mesi”).



    Soddisfazione.



    Alzo gli occhi, John non è più nella stanza. Ignoro la cosa, continuo a leggere il giornale (scontri a Tottenham, l’articolo si ricollega ai disordini di Brixton. Noioso. Un articolo sul discorso di Obama riguardo crisi. Noioso. Una vittoria dell’Arsenal. Noioso).



    John (dov’è?).



    Lascio il giornale sul pavimento, mi alzo. Percorro il soggiorno e arrivo in cucina (segni di scarpe sul pavimento, numero 37, punta arrotondata e tacco quadrato; non è ciò che cerco). Mi spingo verso il corridoio, guardo nella mia stanza (ho lasciato la finestra aperta e l’acqua è entrata in casa), poi guardo in bagno (un asciugamano abbandonato sul pavimento). Attraverso di nuovo il corridoio, la cucina, il soggiorno. Mi fermo. Salgo al piano di sopra (il terzo e il settimo scalino emettono rumori particolarmente fastidiosi). Porta aperta. Entro. Non c’è nessuno.



    “Signora Hudson!” (urlo).



    Scendo le scale in fretta, arrivo al piano terra, svolto a sinistra, entro nella cucina della mia padrona di casa.



    “Caro, che ci fai qui?” (mi guarda mentre continua a cucinare).



    “John. Dov’è?” (mi avvino a lei lentamente).



    “E’ uscito, mi ha anche salutata. Ha detto che non sarebbe tornato per cena e, forse, che sarebbe rimasto anche la notte fuori” (si sfrega le mani). “Suppongo si veda con quella donna” (annuisce). “E’ una brava ragazza ma so che non sa cucinare”.



    “Mary Morstan” (mi guardo le scarpe).



    “Proprio lei. E’ una brava persona: molto educata, di notevole personalità” (afferra un barattolo dallo scaffale dietro di me).



    John è uscito.

    Non l’ho nemmeno sentito andare via (eppure, fino a poco prima di iniziare a leggere l’articolo sul caso di Ann McGinty, i miei sensi erano focalizzati sui movimenti operati da John).



    Penso: ho ignorato John per ricavare della misera soddisfazione da un articolo del Sun? (Ricordarsi di verificare entro la fine della giornata).



    La mia mano destra sale alla fronte, abbasso il viso. Il mio volto accenna uno stanco sorriso.



    Sto perdendo il controllo della situazione.



    Sento che mi sta sfuggendo dalle mani (come una cosa, come un oggetto personale).





    Sento che non posso fare nulla per impedirlo (irrazionale, irrazionale, irrazionale).





    ***




    Aprile, 16. Devo cambiare le pile dell’orologio in cucina.

    John Watson è appena tornato.

    Lo farò dopo.

    1.45 p.m.



    “Hai mangiato, Sherlock?”.

    Entra in cucina, sorride. Ha delle buste della spesa sia nella mano destra che nella mano sinistra.

    “Io sono passato al supermercato, ho fatto un po’ di spesa” (sorride).

    Mi perdo in quel mosaico di rughe sul suo viso.

    “Bravo, John” (annuisco).

    Mi guarda, sorride (ancora).



    Potremmo litigare altre mille volte, sono certo che lui continuerà a sorridermi (in quel modo così ingenuo, così amichevole, così ordinario, così estasiante, così dolce).



    “Hai comprato anche qualcosa da mangiare al momento? Senza cucinare, intendo” (conosco già la risposta).



    Lui lo sa (che conosco già la risposta).



    Gioca al mio gioco. Sorride e mi parla.



    “Per la strada ho preso qualcosa Take-Away” (alza una delle buste).



    Annuisco.



    “Se Greg vedesse questa scena stenterebbe a credere ai suoi occhi” (ride).



    Mi fermo (contemporaneamente più domande nella mia testa).



    “Greg?”.

    “Lestrade” (annuisce).

    “Stenterebbe a credere ai suoi occhi?”.

    “Al fatto che anche tu mangi” (annuisce ancora).



    Mi meraviglio, talvolta, di come la gente non mi reputi umano.



    “La fame è una condizione fisiologica, mi chiedo come sia possibile pensare che io non senta il bisogno di mangiare”.



    John mi porge un piatto di plastica con del pesce fritto e delle patatine (odio per questo tipo di cibo).



    “Mangia. Questa robaccia in altre situazioni ti farebbe male, ma prima che inizi un nuovo caso preferisco che tu ti nutra” (le sue mani sul bordo del tavolo, il peso del suo corpo sugli arti). “Non vorrei che tu morissi di cachessia”.



    “Ti ho detto che sento lo stimolo della fame”.



    I miei occhi cadono sul piatto mentre la sua mano affonda nei miei capelli (come le mani di mia madre quando ero piccolo).



    Sensazione di sicurezza. Fiducia. John Watson.






    ***


    “Te ne devo una” (sussurro la frase con un filo di voce, batto le dita contro il microscopio).



    Torno al mio lavoro. I miei occhi si staccano dall’oculare. Penso.



    “Molecola di glicerolo” (sbuffo) “Che cosa significa?!”. Penso (più intensamente).



    Ritorno al microscopio sperando di trovare la soluzione in questo secondo tentativo.



    “Cosa volevi dire prima?”



    Momentaneamente focalizzo la mia attenzione sulla voce di Molly (inutile). La mia mente è ora rapita da John che mi passa davanti (passo svelto). Sensazione piacevole (esplosione emotiva). Ogni centimetro del mio corpo gli urla di voltarsi, di incrociare il mio sguardo anche solo per pochi secondi.



    Non lo fa.

    Mi passa davanti (passo svelto) per poi sparire dall’altro lato della stanza.



    Implosione emotiva.



    “Hai detto: “Te ne devo una”…” (lo sguardo di Molly cerca il mio). “Lo borbottavi mentre lavoravi”.

    “Niente, è una cosa mia”.



    Molly tace. Con la coda dell’occhio osservo i suoi movimenti (fa qualcosa di inutile con le mani, finge di lavorare mentre trova le parole per rispondermi).



    “Tu sei come mio padre…” (cerco di decifrare il suo tono di voce). “E’ morto” (si ferma) “oh, scusa…”



    “Molly, smetti di fare conversazione, non è affatto il tuo campo” (tentativo di zittirla).



    Le sue parole mi distraggono. Trovo difficile ritrovare la concentrazione, adesso.



    Sento che Molly balbetta qualcosa (tornerà a parlare).



    “Negli ultimi giorni di vita lui era sempre allegro e ben disposto, eccetto quando era da solo”.



    Continuo a lavorare (cerco di ignorare le sue parole).



    “L’ho visto una volta…” (il suo tono di voce è diventato più scuro, più piatto). “Era… triste”.



    “Molly!” (un altro tentativo di zittirla).



    “Tu sei triste quando pensi che lui non ti veda”.



    Il mio sguardo, quasi automaticamente, cade sulla figura di John. Lavora su qualcosa (non me ne ha parlato ancora) con estremo impegno. Mosaico di rughe sul suo volto.

    Desiderio incontrollabile di essere abbracciato da lui (ancora una volta).



    Mentre lo guardo mi ritornano in mente le ultime parole di Molly. Mi volto (piano) e la guardo con attenzione (non l’avevo mai guardata così prima d’ora). Ha gli occhi un po’ lucidi.



    “Stai bene?” (Lei continua la frase prima che io riesca a rispondere). “Non dire di sì e basta perché io so che vuol dire essere triste quando pensi che nessuno ti veda”.



    Cos’è questa? Una critica? Un consiglio? Confuso. La mia mente disegna tutto il dolore che le ho provocato in questi anni non curandomi di lei (mi rimanda al pensiero di perdere John per sempre).



    “Ma tu puoi vedermi”.

    “Io non conto”.



    I miei occhi affondano nei suoi. Strana sensazione sotto la pelle.



    “Quello che dico è che se c’è qualcosa, qualcosa di cui hai bisogno, qualunque cosa, puoi avere me!” (Sorride, ma poi si ferma bruscamente ripercorrendo le sue parole). “No, io… voglio dire…” (guarda altrove) “voglio dire che se hai bisogno di qualcosa, insomma…” (si volta) “va bene, ecco” (concentra il suo sguardo sul pavimento).



    Una dimostrazione di amicizia?



    “Ma non…” (le mie palpebre sia abbassano e si alzano ripetutamente) “non capisco cosa mai potrei volere da te” (il mio sguardo in un punto indefinito della stanza).



    “Niente” (delusione nel suo tono di voce? Verificare). “Non lo so…” (alza le spalle). “Ma forse potresti dire “grazie”, almeno” (accenna dei movimenti con la testa).



    Confuso (difficoltà nel comprendere queste regole sociali). Perché (ringraziare)? Temo di non comprendere il rapporto causa-effetto. Mentre penso, tuttavia, sento il bisogno spontaneo di emettere quel suono che mi si spezza in gola.



    “Grazie”.



    Molly mi cammina dietro. Guazzabuglio di pensieri nella mia testa (difficoltà nel riordinarli secondo una logica precisa).



    “Io vado a prendere delle patatine, tu vuoi qualcosa? Ok, la risposta è no” (mi guarda).

    “Beh, magari invece…”.

    “So che dici di no”.



    La porta sbatte dietro di lei mentre sotto la pelle, nelle vene, sento di essere stato letto come un libro aperto. I miei occhi ricadono su di lui (percorro i tracciati delle sue espressioni).

    Sciolgo la mia fisicità nel pensiero di lui (e me).



    “Sherlock…” (la voce di John mi richiama alla realtà).



    Istintivamente lascio che i miei occhi affondino di nuovo nel microscopio (timore di essere scoperto mentre lo guardavo). Gli rispondo con suoni gutturali che si disintegrano in gola.



    I miei occhi di nuovo su di lui mentre mi si avvicina.



    “Questa busta che era nel baule… ne ho una uguale” (si muove verso il capospalla che aveva lasciato sul tavolo di fronte a me).

    “Cosa?!”

    Cerco di ritornare al mio lavoro (difficoltà).

    “Era davanti casa nostra” (fruga nelle tasche). “L’ho trovata oggi” (mi si avvicina sussurrando qualcosa). “Sì, guarda qui, esattamente lo stesso sigillo”.



    Le mie mani aprono la busta, ne scoprono il contenuto.

    “Briciole di pane” (lascio che dalle mie dita ricadano nella busta).

    “Era davanti alla porta”.

    “Una pista con le briciole, una copia rilegata delle fiabe dei Grimm; due bambini condotti nella foresta dal padre spietato lasciano una pista di briciole…”

    “E’ Hansel e Gretel!” (Il suo tono di voce è particolarmente acuto). “Ma quale rapitore lascerebbe degli indizi…?” (Bravo John, mi piaci quando poni le domande giuste).

    “Uno che ama compiacersi, che gioca con le persone” (la mia mente si focalizza su Moriarty). “Quando era a casa nostra ha usato queste parole: “In tutte le fiabe c’è bisogno di un buon vecchio cattivo”.



    Illuminazione (ed eccola di nuovo mentre, veloce, mi scorre nelle vene come se fosse la migliore sostanza stupefacente mai sintetizzata).



    “La quinta sostanza fa parte della fiaba” (John si sporge a guardare il mio lavoro). “La casa della strega!”



    “Cosa…?” (John non riesce a seguire il filo dei miei pensieri).



    “La molecola di glicerolo!” (Continua a guardarmi incuriosito).



    “PGPR!” (Mi alzo, sento l’apice del piacere mentale; eccolo come il flash, come l’orgasmo).

    “Che cos’è?”.

    “Serve per fare la cioccolata!”.



    Il mio corpo esce spedito dal laboratorio. Mentre percorro i corridoi del Bart’s mi sento carico di eccitazione (desiderio di risolvere il caso in fretta per sentire altri complimenti dalla bocca del mio dottore).



    John Watson, il mio (personalissimo) portatore di luce.





    ***




    <span style="font-size: 14px;"><span style="font-family: Georgia,serif;">“Telecamere, ci stanno osservando”.

    (Tensione, rabbia, agitazione, paura).



    “Cosa?! Telecamere? Qui?!” (paura e agitazione anche nel tono di voce della signora Hudson). “Ma sono in camicia da notte!”.



    Non la guardo nemmeno (ma il mio udito mi suggerisce che è scesa al piano di sotto). Le mie mani sul teschio (Billy); con la destra lo mantengo fermo, con la sinistra cerco all’interno delle orbite.



    Niente.



    Scivolo verso gli oggetti al suo fianco (lo specchio, la bacheca, i fogli, il fermacarte). Irrilevanti.



    Cerco di arrivare ai libri che si trovano nella parte più alta della libreria (salgo sul tavolino, sulla poltrona). Il mio udito segnala suoni per le scale già conosciuti. Sposto alcuni tomi della vecchia enciclopedia rilegata (spingo a destra, a sinistra, ora lo faccio scivolare in fondo).



    Trovata.



    Cerco di staccarla dal supporto (è una telecamera con collegamento wi-fi, ovviamente). Il mio udito mi fa notare che i suoni sono ormai vicini. Momentaneamente focalizzo la mia attenzione su quel rumore.



    “No, ispettore”.



    “Cosa?”.



    Sono riuscito a sganciare la piccola telecamera dal suo supporto. I miei piedi nuovamente sul pavimento. Ritorno alla presenza di Lestrade nella stanza.



    “La risposta è no”.



    “Ma non sai la domanda!”.

    Il tono di voce di Lestrade appare quasi di rimprovero.



    “Vuoi portarmi in centrale, ti risparmio di chiedermelo”.



    Focalizzo la mia concentrazione sulle parole da usare con l’ispettore. Lestrade è ora una pedina di Moriarty.



    “L’urlo?” (Il mio tono di voce appare sottilmente derisorio).



    “Sì” (fatica nel pronunciare quella sillaba).



    “Chi è stato, Donovan? Ci scommetto. Sono in un qualche modo il responsabile del rapimento? Oh, Moriarty è astuto!” .



    I miei occhi in quelli di John (timore?), ora in quelli di Lestrade (timore?).



    “Ti ha messo questo dubbio nella testa, un piccolo tarlo; ma bisogna essere forti per resistere. Non puoi uccidere un idea, non quando ormai ha preso il suo posto…” (il mio dito si dirige verso la sua fronte) “…qui”.



    Mi allontano da loro (da John e da Lestrade) per sedermi di nuovo al mio posto, dinnanzi al computer (lavorare sulla telecamera, subito, prima del prossimo definitivo impedimento).



    “Vuoi venire?” (Lestrade ha il volto contrito).



    “Una fotografia, la sua prossima mossa” (non lascio ai due il tempo di controbattere). “E’ il gioco di Moriarty: prima l’urlo, poi la foto di me che vengo interrogato. Vuole distruggermi pezzo dopo pezzo”.



    Osservo la telecamera ancora una volta prima di iniziare il mio lavoro (una lotta contro il tempo, quel poco di tempo che ancora mi rimane).



    “E’ un gioco, Lestrade, ed io non voglio giocare” (i miei occhi bruciano al contatto con l’eccessiva luminosità dello schermo). “Salutami tanto il sergente Donovan” (intanto le mie mani battono i codici per entrare nel DVR).



    Lestrade se ne va (credo di aver trovato la password).



    Sullo schermo del mac appare la mia immagine (tengo stretta la telecamera in mia direzione). Da qui posso resettare il DVR e appoggiare la telecamera ad un sistema diverso. Lascio il computer in lavoro mentre stila i codici nel terminale e nella console (ricordarsi di eliminare i dati nel monitoraggio delle attività). Provo un’insostenibile sensazione di ansia al pensiero che anche John è parte di questo gioco (ruba la mia concentrazione mentre mi passa davanti per sporgersi a guardare fuori dalla finestra). So a cosa sta pensando. Decido di dare una risposta ai suoi dubbi.



    “Stanno decidendo” (la mia voce è particolarmente monotona).

    “Decidendo?” (Gli trema la voce).

    “Se tornare qui con un mandato e arrestarmi”.



    Si volta (gli leggo la paura negli occhi).



    “Procedura standard” (ritorno alla telecamera).



    “Dovevi andare” (poca fiducia in me). “Le persone penseranno…” (lo interrompo).

    “Non mi interessa cosa penseranno gli altri”.



    “Ti interesserebbe se pensassero che tu sia stupido…” (a che gioco stai giocando, dottore?) “…o in errore” (lo interrompo di nuovo).

    “No, sarebbero loro stupidi o in errore”.

    “Sherlock, non voglio che tutti pensino che tu sia…” (si interrompe di scatto).



    I suoi occhi (così diversi).

    La fiducia è appesa a un filo. Sento che sta contemplando la possibilità che io non sia l’uomo geniale che lui conosce (paura di perdere John Watson per sempre).

    Il suo volto sembra quello di un bambino che ha paura del buio (io non ho mai avuto paura del buio). Le sue sopracciglia tendono verso l’alto, la sua bocca è serrata. Da ogni mio comportamento dipendono le sorti del nostro rapporto.



    “Che sia cosa?” (Lo guardo caricando la mia espressione di rabbia e disappunto).



    Non mi risponde subito. Attraversa qualche secondo di silenzio prima di pronunciare quel fatidico lemma.



    Un impostore”.



    Mi concentro su quel discorso. La mia schiena si appoggia totalmente allo schienale della sedia.



    “Temi abbiano ragione”.

    “Cosa?” (Dubbio e ansia nel suo tono di voce).

    “Temi che loro abbiano ragione”.

    “No” (lo dice sottovoce, quasi a tradire quella fiducia che cerca di dimostrarmi).

    “Per questo ti arrabbi, non contempli la possibilità che abbiano ragione perché temi che io abbia ingannato anche te” (non faccio in tempo a continuare la frase che sento un “non è vero” sussurrato tra i denti).

    “Moriarty gioca anche con la tua mente, riesci a capire che sta succedendo?!” (Violenta pressione della mia mano contro il tavolo).



    Rabbia, paura, ansia. Sto perdendo il controllo (è quello che Moriarty vuole).



    Al rumore della mia mano che sbatte contro la superficie, John sobbalza guardandomi con le sopracciglia rivolte definitivamente verso l’alto.



    Interminabili secondi di silenzio (insostenibili). Attesa. La sua risposta mi aiuterà a scegliere le parole migliori per la prossima frase.



    “No, ti conosco troppo bene”.

    “Al 100%?”.

    “Nessuno fingerebbe di essere un idiota per così tanto tempo”.



    Fiducia. John Watson si fida di me (ancora, nonostante tutto). Rassicurante (rapporto di reciproca fiducia).



    Mi perdo nei suoi occhi (ancora scossi dall’ansia e dalla paura) per pochi secondi; so che questa volta non posso fare passi falsi. Mi godo la sua presenza perché so che John Watson è la prima persona che Moriarty metterà nel suo mirino (non so come, non so quando).

    Devo mettermi sulla linea di tiro di Moriarty, scavalcarlo, essere sempre una mossa davanti a lui (è difficile sapendo che lui sta facendo esattamente la stessa cosa).



    Devo giocare al suo gioco, capire dove vuole portarmi (passo dopo passo).



    Affondo ancora negli occhi di John (che mi guarda con intensità). Gli accenno un sorriso (come per dire grazie). Mi sorride in tutta risposta (portatore di luce).



    Si volta verso la finestra. Il suo volto, piano, diventa sempre più triste e più agitato. Intanto mi sono appena reso conto che sono rimasto lì con il sorriso stampato in faccia.



    Ritorno alla mia telecamera. Non è la prima volta che faccio un lavoro di questo genere (ma dubito che Moriarty abbia ignorato questo dettaglio).



    Forse Moriarty ha ignorato che avrei trovato la telecamera prima che Lestrade venisse da me.



    Lavoro ancora un po’ nelle impostazioni del proxy.



    I miei occhi si allontanano dallo schermo per pochi minuti (mi concentro sul corpo di John, in cucina).



    Le mie dita battono sui tasti del computer (scrivo nel terminale).



    Telecamera resettata e appoggiata a un DVR diverso.



    Elimino gli ultimi dati nel monitoraggio delle attività (il computer mi chiede di inserire ancora una volta la password).



    Lavoro completato.



    Inserisco la telecamera in tasca, accesa (potrebbe rivelarsi più utile nella mia tasca che qui a casa).



    John mi si avvicina (due tazze, una nella mano destra e l’altra nella mano sinistra).



    Me la porge, non parla (cerco di mantenere il controllo).



    Bevo il tè molto velocemente (scotta ma ciò è irrilevante). John si siede sul divano e beve a piccoli sorsi. In poco la mia tazza è vuota.



    “John, questa è una guerra” (mi fermo di proposito). “Prendila come se fosse un ritorno in Afghanistan”.



    Non mi risponde. Si limita ad alzarsi, ad avvicinarsi e a prendere la mia tazza (per portarla in cucina).



    Osservo la sua figura di spalle (timore di perderlo per sempre).



    Mi alzo (di scatto), voglio abbracciarlo. Gli sono vicino. Si volta prima che le mie mani riescano a stringerlo.



    I suoi occhi nei miei (mi sembra di sentire la sua voce che dice di non vedere l’ora di sposarsi). Senso di responsabilità (non lo abbraccio). Gli sorrido, prendo la mia tazza dalla sua mano e mi sposto in cucina (lascio la tazza nel lavandino).



    Sconfitto (devo mantenere la lucidità).



    Ritorno in soggiorno e affondo nella poltrona (focalizzando il mio sguardo in un punto imprecisato della stanza).



    Non posso pensare a tutti i punti del piano di Moriarty (e di conseguenza alla mia tattica di risposta) perché per ora ho in mano pochi indizi. So solo che vuole far decollare il mito di Sherlock Holmes. Uccidermi non basta per uno come Moriarty.



    Ripenso a cosa ne sarà di John (non voglio perderlo).



    “In Afghanistan non ho mai avuto nessuno per cui combattere, nessuno da difendere, nessuno di cui temerne la morte” (mentre lo dice si siede sulla poltrona dinnanzi a me). “Questa volta non è come in Afghanistan, credimi”.



    “Nel senso che adesso hai qualcuno per cui vale la pena vivere, John? Mary, il tuo matrimonio, i tuoi futuri figli…” (mi si disintegra il cuore ad ogni sillaba, ad ogni accento).

    “No, Sherlock; nel senso che adesso combatto per te, difendo te e temo la tua morte come se tu fossi la persona più importante nella mia vita”.



    I miei occhi si spalancano. Lo guardo e temo ogni mia possibile reazione (dall’impassibilità all’esplosione emotiva). Quasi temo di più la prima (sento che la difficoltà ad esprimermi mi sta spingendo verso la prima opzione).



    “Parlami, Sherlock”.

    “Ti parlerei di Moriarty”.

    “Parlami di te”.



    Deglutisco.



    “Non so cosa dirti” (abilità nel dire tutto o nel dire niente in risposta a domande come queste).

    “Hai paura?”.



    Domando a me stesso se ho paura. Sì, paura di perdere John Watson. Ho paura di Moriarty? No, ho paura di quello che potrebbe fare a John. Tutto è in relazione a lui, adesso. Sento che la sua incolumità passa in secondo piano rispetto all’opinione pubblica nei miei riguardi (a costo che il mondo pensi che io sia un idiota).



    “Non lo so, John”.



    Sento che mi sto sciogliendo sotto il suo sguardo. Implosione emotiva. Mi mordo le guance con rabbia.



    “Ci sono volte che penso a te, Sherlock, quando eri ragazzo” (ride).

    Vuole rendere più leggero il momento? Perché?

    “Come sono nella tua immaginazione?”



    Si ferma (non ride più), guarda un punto indefinito del pavimento.



    “Triste” (si porta la mano destra alle labbra). “Ma potrei sbagliarmi, e lo spero”.



    Chiudo gli occhi e scivolo nel mio palazzo mentale.

    Voglia di vomitare tutti quei ricordi (ma non lo farò). Crepe (nel cuore, nella pelle, nella mente).



    “Ho anche qualche altra qualità nella tua immaginazione?” (Cerco di sorridere).



    “Sei il solito genio” (ride).



    Mi perdo in quella risata (così semplice, così sincera).



    Si alza per posare la tazza di tè che reggeva ancora nella sinistra. Si dirige in cucina mentre sento la sensazione di qualche cosa che si spezza all’interno del mio corpo.



    “Sarai sempre al mio fianco, John?” (Il mio tono di voce è leggermente più alto).

    “Sempre” (si volta e mi sorride, dolce).



    Il contatto visivo è spezzato dal suono del suo cellulare. Ignoro la cosa e scivolo di nuovo nel mio palazzo mentale (rielaboro la tattica di Moriarty). Penso che John non mi basti, qualsiasi sia la tattica scelta da lui (da Moriarty). Se in futuro avessi bisogno di qualcuno in particolare… devo fare attenzione. Suppongo che aiuti da parte di persone che si trovano all’interno di specifici settori siano indispensabili.

    Credo sia fondamentale stilare una lista delle persone che possono essermi utili.

    Per prima cosa ho John (pedina sicura). Potrebbero essermi di aiuto persone come Lestrade (essendo all’interno della polizia) o persone come la signora Hudson (che mi conosce da tanto ma al contempo che è un’insospettabile). Anche Mycroft in una situazione del genere potrebbe essermi di aiuto (ma per ora preferisco tenerlo sul fondo della lista).

    Temo di non avere nessun altro di fidato (la rete dei senza tetto in casi come questi mi è inutile).



    “Hai ancora amici in polizia, era Lestrade” (John posa il cellulare sul tavolo). “Mi ha detto che stanno venendo qui, fanno la fila per metterti le manette” (si ferma per poco). “Ogni agente che hai fatto sentire un imbecille, e sono parecchi”.



    La signora Hudson entra all’improvviso (“Cucù”).



    “Scusate se vi interrompo. Un tizio ieri ha portato un pacco, me n’ero dimenticata. E’ un oggetto deperibile, ed ho dovuto anche firmare!”

    Mi volto, guardo la busta nelle mani di John (familiare).

    “Aveva un nome strano! Tedesco… ? Come quello delle fiabe!” (Ride).



    Mi alzo, mi avvicino all’oggetto che sta per essere estratto da John. Appena gli sono vicino posso guardare il contenuto della busta.



    “Pupazzo carbonizzato…” (sussurro).

    “Che significa?” (la voce di John è più scura).



    Mentre mi calo nei miei pensieri sento il campanello.



    E’ l’ora di entrare in scena. Lascio tutto e mi dirigo verso il cappotto e la sciarpa.





    E loro sono qui, adesso. Mi vengono addosso, mi toccano (indescrivibile sensazione di fastidio a cui non posso oppormi). Le mie mani dietro la schiena (sto morendo ogni minuto di più).



    La voce di Lestrade si è fatta ora lontana.

    “Sherlock Holmes, la dichiaro in arresto per sospetto (“non fa resistenza!”) di sequestro di persona”.



    “Va tutto bene, John”.



    “Non sta facendo alcuna resistenza! E’ ridicolo!”.



    “Portatelo di sotto, adesso”.



    Le mani dell’uomo dietro di me mi spingono con violenza verso le scale (lo riconosco: gli dissi una volta che non sapeva fare il suo mestiere). Mentre scendo mi dice che sono una persona ignobile. Soffoco tutta la rabbia pensando a John.



    Mentre esco riesco ancora a sentire la voce di John (echi lontane).



    Sono fuori casa (ho perso la percezione del caldo e del freddo).



    L’uomo mi spinge con violenza contro l’auto della polizia (“sei un bastardo schifoso”).



    Abbasso il capo e contemplo la possibilità (una su mille) di perdere.



    Urla dal 221b (“dovevo aspettarmelo dall’amico di quello stronzo”). Sorrido. Talvolta penso che l’agnosticismo (con velate credenze romantiche sull’assenza della casualità) di John spieghi più cose del mio ateismo. Talvolta penso che se credessi in Dio lo ringrazierei giorno e notte per aver messo John sul mio cammino.

    Ma poi ritorno alla mia realtà priva di cose futili ed inesistenti come Dio e Destino (nel senso quasi divinatorio del termine).



    Con la coda dell’occhio mi sembra di aver intravisto il commissario capo grondante di sangue (bravo John). In pochi secondi anche John viene con violenza sbattuto contro la carrozzeria dell’auto.



    “Ti unisci a me?” .

    “Sì” (i poliziotti uniscono le nostre manette). “Sembra essere un reato tirare un pugno al commissario capo”.



    Bene. Primo passo falso della polizia (e poi si chiedono perché dica loro che non sanno fare il loro mestiere).



    “Sarà un po’ difficile” (il mio tono di voce è velatamente più alto del solito).

    “Trovare chi pagherà la cauzione?”

    “Stavo pensando più alla nostra imminente e audace fuga”.



    Interferenze provocate da una semplice e breve pressione applicata su un pulsante. Facile. Si piegano tutti contorcendosi al rumore provocato dai loro aggeggi elettronici (sfilo la pistola dalla fondina del poliziotto dietro di me).



    Mi allontano.



    “Signori e signore potreste cortesemente inginocchiarvi?!” (Lestrade mi guarda deluso mentre pronuncio queste parole).



    Sparo due colpi (impugno la pistola con la mano ammanettata a quella di John).



    “Avanti, avete sentito?!” (Le mie urla diventano più forti).



    (“Fate come dice!”).



    “Tanto per farvelo sapere, la pistola è una sua idea!” (Timore nelle sue parole). “Io sono un…”

    “Un mio ostaggio!” (Urlo puntandogli la pistola alla testa).

    “Sì, ostaggio, giusto…” (il tono della sua voce si abbassa repentinamente).



    “Che facciamo ora?” (Cerca di parlare a bassa voce ma il suo tono è decisamente più squillante del solito).

    “Quello che Moriarty vuole. Diventiamo fuggitivi”.



    Pochi secondi per razionalizzare e poi siamo in fuga tra le strade di Londra.



    Difficoltà di coordinazione.



    “Tienimi la mano!”



    La sua mano nella mia (stretta con vigore). Stringo anche io, forte. Sento che sono lì, adesso: in quel contatto tra la mia e la sua mano.





    Timore (adesso sempre più presente) di perderlo per sempre.


    ***




    Vieni a giocare. Tetto del Bart’s. Ho qualcosa di tuo che potresti volere indietro. -SH



    I miei occhi in un punto indefinito della stanza. Profonda sensazione di angoscia dinnanzi a tutte le tattiche che ho mentalmente stilato riguardo questa situazione.



    Tutte avranno delle conseguenze negative.



    Difficoltà nel mantenere la calma.



    Deglutisco e guardo John, cerco di imprimere nella mente la sua figura in caso dovessi utilizzare quel piano.



    Non sono psicologicamente e fisicamente pronto a farlo.



    Mi siedo per terra, le mie mani (entrambe) nei capelli. I sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde.



    Salvo il messaggio tra le bozze (lo invierò tra qualche ora, quando tutte le mie pedine saranno in posizione).



    John si siede al mio fianco, non parla; si limita a fissare lo scaffale dinnanzi a sé (quanto sono diventati più bianchi i suoi capelli dalla prima volta che ci siamo incontrati?). Lancio la pallina nera contro quello scaffale, lascio che vi rimbalzi contro e che ritorni nella mia mano.



    John posa la sua testa sulla mia spalla sinistra.



    Guardo l’orologio mentre lascia che le lancette girino nella loro smisurata lentezza. I pensieri torturano la mia mente (non riesco a godere del contatto fisico, assolutamente spontaneo, che c’è tra me e John).



    “Sherlock…” (il suo tono di voce è terribilmente rauco) “…qualsiasi cosa succeda, voglio che accada sia a me che a te” (si ferma per qualche secondo). “Anche se questo vuol dire andare incontro alla morte insieme. Non mi escludere, non farlo mai nemmeno nei tuoi pensieri”.



    Ripenso brevemente ai miei piani: tutti lo escludono, categoricamente. Il timore che possa succedergli qualcosa è tale da avermi spinto a posizionare pedine come la signora Hudson o Lestrade in modo tale da accerchiare John e da tenerlo lontano da questa storia (farà da solo le mosse che mi servono, senza essere coinvolto attivamente).



    “Non ti escluderò”.



    Il suo braccio sinistro mi stringe la vita (con il pollice della mano destra gli accarezzo il dorso della mano). Porto la mano destra alla sua spalla sinistra, poi lascio che la stessa scivoli dietro la nuca. Alza istintivamente il volto (sembra che si stia sporgendo verso il mio viso).



    Lo bacio.

    Questa volta chiudo gli occhi ignorando completamente la visione della sua reazione (riesco perfettamente a immaginare il suo volto sotto le mie palpebre chiuse). Concentro la mia attenzione sul senso del tatto (le sue labbra sulle mie, le sue dita che premono contro il mio fianco destro, la sua gamba destra posata sulla mia sinistra, il mio braccio sinistro a contatto con la sua spalla destra). Ogni volta che quel contatto diventa sempre più intimo, sento che il pensiero di Moriarty si sbiadisce sempre di più (sbagliato, irrazionale).



    Timore.

    Mi allontano.



    “Mi distrai, devo pensare”.



    Mi squilla il cellulare (messaggio).



    Avverti me e la signora Hudson almeno dieci minuti prima -G. Lestrade



    E’ inutile rispondere (non li avviserò dieci minuti prima, dovranno tenersi pronti).



    La presenza di John sul mio corpo mi rende colpevole agli occhi di Mary (il mio caos sta distruggendo il futuro del mio dottore).



    Mary. Penso a quanto sia stata presente nella vita di John (ad ogni litigio con me, ad ogni ansia, ad ogni problema). E’ una persona seria.



    E’ innamorata di John (“follemente”).



    Riprendo il cellulare. Scrivo un messaggio a Lestrade.



    Se ti dico che seguirò il piano F racconta tutto a Mary Morstan. Non deve dire nulla a John (per la sua sicurezza). Non farmi domande a riguardo, non ti risponderò -SH



    Penso che io non possa fare più nulla oltre a metterlo nelle mani della signora Hudson e di Mary.



    E’ necessario che lui non sappia niente (per la sua incolumità).



    Il piano F prevede più coordinazione e cooperazione degli altri. Se qualcuno sbaglia qualcosa si rischia di mandare a monte tutto.



    La mano di John, adesso, è concentrata a togliere quelle ciocche di capelli che mi si sono attaccate alla fronte (sudore).



    Le mie mani lo spingono indietro, il mio corpo su di lui. Lo bacio (di nuovo).

    Percepisco un velato senso di contraddizione tra i voleri dell’emisfero destro e quelli dell’emisfero sinistro. Per pochi secondi lascio che mi baleni l’idea di alzarmi e di comportarmi da persona razionale (ma temo che questo comportamento possa provocarmi rimpianti di vario genere).



    Le mie mani a contatto con il pavimento freddo. Ignoro la fastidiosa percezione e mi concentro su quello scontro di lingue. John lascia salire le sue mani dietro la mia nuca e mi attira a sé (di più, di più).



    E adesso non c’è più nessuna Mary, nessuna Molly, nessun Lestrade, nessun Moriarty. Sto disintegrando la realtà circostante (tentativo di prendermi il più possibile da lui prima della fine).



    “Ti amo ancora come dieci mesi fa”.

    Lo sussurra quasi come se fosse il nostro più grande segreto (lo è).



    La mia testa sul suo petto, le mie mani aggrappate alla sua maglia in filo di scozia. Piangerei se potessi (sensazione di vuoto sotto la pelle). Disperazione al pensiero di non riuscire a urlargli tutto il mio amore per lui.



    Mi stringo più forte al suo petto (la sua sinistra affonda tra i miei capelli).



    “Dimmi che finita questa storia inizieremo tutto da zero” (il tono della sua voce è più alto del solito).



    “Te lo giuro, John. Aspetta solo domani, ancora un altro giorno”.



    Le sue labbra di nuovo sulle mie (la mia mente si focalizza su quel contatto).



    No, non ci sarà un domani per noi.



    La mia mente si spezza al pensiero che su sei piani che ho preparato, ben cinque prevedono la nostra separazione. Non ho potuto fare di meglio (Mary saprà renderti felice più di quanto ti abbia reso felice io tra casi, inseguimenti e sparatorie).



    Il mio caos come l’Afghanistan. Volevi la guerra (sono la guerra). Non può esserci amore in guerra.



    Le sue mani scivolano sui bottoni della mia camicia (come quando eravamo vicendevolmente coinvolti in una relazione sentimentale). Le sue dita sbottonano (bottone dopo bottone) la camicia (lentezza nei suoi gesti). Mi cinge la vita (sotto la camicia) baciandomi ancora una volta.



    La sua gamba sinistra si fa spazio tra le mie (stimolazione del perineo da questa posizione).



    Penso alle circostanze (il luogo, l’occasione, Mary). Ignoro tutto (e lo bacio con frenesia).



    Le mie mani scendono sul bottone dei pantaloni (lo slaccio). Desiderio di togliergli la maglia blu in filo, la camicia (non c’è tempo). Le mie mani si concentrano sulla chiusura lampo (tentativo di non provocargli dolore aprendola di scatto).

    Cerco di apparire sicuro (mi tradiscono le mani che tremano).



    Le sue mani sul mio petto glabro.



    Con la destra cerco il contatto con il suo pene (costretto ancora in quel pezzo di stoffa). Gli tiro giù quello che ancora impedisce quel contatto.



    Ricordo le indicazioni agogiche che mi hanno aiutato la prima volta. Non le seguirò. La mia mano destra procede subito con un allegro qualsiasi (“Cristo”).



    Il suo membro pulsa sotto la mia mano (bagnata dal suo liquido preseminale).

    Penso che sia meglio non lasciare tracce di quello che sta succedendo (il mio viso scende verso il suo pene). Reprimo il riflesso faringeo e continuo a lavorare (lancia soddisfacenti gemiti di piacere).

    In pochi minuti (percepiti come istanti) si riversa tra le mie labbra.



    Ingoio ed ignoro il sapore (indefinito ed inclassificabile).



    Mi siedo con le spalle rivolte al bancone del laboratorio (sento la sua bassa temperatura anche attraverso gli strati di stoffa della giacca e della camicia). La mia mano destra scende verso il cavallo dei pantaloni, la sinistra è occupata a stringere il piede destro di John (disperato bisogno di contatto con il suo corpo). Stendo le gambe, slaccio il bottone dei pantaloni, tiro giù la zip. Libero l’erezione costretta in quegli indumenti stretti. La mia mano scende e risale percorrendo svelta tutta la lunghezza (chiudo gli occhi, apro la bocca).



    La mano di John sulla mia.



    Lascio andare il mio membro per fare spazio alla mano del mio dottore (che scende con vigore utilizzando la sua sinistra).



    Si ferma (inaspettato).



    Le sue labbra sul mio pene (poi scende, scende, scende).



    La mia mano sinistra gli sfiora i capelli (piano). Ogni secondo che passa sembra sia l’ultimo.



    La sua lingua e le sue labbra sul mio glande (poi sono di nuovo nella sua bocca).



    Lo guardo scendere ancora una volta mentre con la sinistra mi tocca i testicoli (sento che l’orgasmo è ormai prossimo).



    Piacere.



    Stringo gli occhi (forte) mentre raggiungo l’apice tra le sue labbra.





    Resto per pochi secondi con gli occhi chiusi (rielaboro gli ultimi avvenimenti, li catalogo e li posiziono nelle corrispettive stanze nel mio palazzo mentale).



    Le braccia di John attorno al mio collo (“mi fai impazzire, Sherlock”).



    Scorrono interi minuti nell’irregolarità dei nostri respiri.



    Penso che ormai sia l’ultima possibilità che ho (prima della fine).



    “John” (il mio tono di voce è serio, fermo). “John, ascoltami bene” (intenso contatto visivo).



    “Dimmi, Sherlock”.



    Aspetto qualche secondo, raccolgo quel po’ di forza che ancora mi è rimasta (psicologicamente e fisicamente). Pendo ormai dai suoi occhi.



    “Ti amo”.



    Ossitocina, endorfine.



    Temo che non riesca a comprendere la difficoltà nel pronunciare quella breve frase (e di conseguenza timore che ignori le mie parole o che le sottovaluti).



    Mi stringo a quella maglia blu in filo di scozia che odora di ammorbidente alla lavanda.



    Una carezza sulla guancia (delicata, dolce). Potrei sciogliermi sotto quella mano (potrei davvero).



    “Grazie di tutto, amico mio. Grazie”.



    Istinto di piangere (non lo farei mai).



    Mi disintegro in quell’abbraccio avendo la certezza che John abbia capito ogni mia difficoltà.



    Mi disintegro in quell’abbraccio sapendo che ho solo una possibilità su sei di riabbracciarlo ancora una volta.





    ***




    John dorme sulla sedia, testa appoggiata al bancone del laboratorio. Inala, inconsapevolmente, piccolissime quantità di tricloroetilene. Quando si sveglierà sarà lievemente confuso e dimostrerà qualche problema legato alla memoria a brevissimo termine. Nell’arco di mezz’ora avrà problemi di coordinazione motoria e possibili allucinazioni visive. Io sono lontano dalla fonte di tricloroetilene, ma non posso completamente escludere la possibilità di qualche effetto collaterale (lacrimazione, dispnea).



    Mi dispiace.

    Lasciare che inali trielina, però, è l’unico modo per tenerlo al sicuro.



    E’ nel mirino di Moriarty proprio come lo sono gli altri. Non posso permettere che succeda loro qualcosa (soprattutto a John).



    Sono tutti pedine in mano mia, adesso.





    Ritorno ai messaggi salvati nelle bozze. Eccolo.

    Vieni a giocare. Tetto del Bart’s. Ho qualcosa di tuo che potresti volere indietro. -SH

    Lo invio.



    Scrivo più messaggi.



    Piano A -SH

    Piano B -SH

    Piano C -SH

    Piano D -SH

    Piano E -SH

    Piano F -SH




    Li salvo tutti nelle bozze.



    Mi sarà più semplice inviarli a tempo dovuto.



    Ripenso alla tattica che corrisponde al piano F. In quel caso sarà tutto più difficile.





    Scrivo un altro messaggio.



    Fai chiamare Jones al numero di John, è il momento -SH



    Lo invio.



    Scivolo più in basso (le mie gambe sul bancone). Lestrade ormai lavora completamente per me, adesso.

    Uno squillo di risposta (messaggio).



    Jones sta per chiamare -G. Lestrade



    Mi stringo nelle spalle e mi godo l’inizio dello spettacolo.



    In pochi secondi il cellulare di John squilla. Un respiro profondo. John si sveglia, afferra il cellulare, risponde.



    La sua espressione cambia improvvisamente.



    “Cosa?! Cosa è successo?! Lei sta bene?!” (Si alza svelto dalla sedia).

    Continuo a fissarlo con la coda dell’occhio.

    “O mio Dio! Ok, sto arrivando”.



    Spegne il cellulare. Mi guarda (disperato).



    “Chi era?”.

    “Un paramedico. Hanno sparato alla signora Hudson”.

    “Cosa? Come?” (Resto calmo volontariamente).

    “Forse uno degli assassini che hai attirato, Cristo! Sta morendo!” (Si volta verso l’uscita).



    “Va’ tu, sono occupato”.



    “Occupato?!” (Mi viene addosso arrabbiato).

    “Rifletto, devo riflettere” (ho già calcolato tutto).

    “Non ti importa niente di lei?! Hai quasi ucciso un uomo che l’aveva solo sfiorata!”.

    “E’ la mia padrona di casa” (e l’Inghilterra cadrebbe senza di lei).

    “Sta morendo!” (Sempre più disperato). “Tu dovresti” (si ferma all’improvviso). “Al diavolo, al diavolo” (si ferma di nuovo). “Rimani qui se vuoi, da solo!” (Rabbia).



    “E’ l’unico modo che ho per proteggermi”.



    “No. Gli amici ti proteggono”.



    Mi sbatte la porta contro. Non c’è tempo per provare dolore (altro dolore). Deglutisco mentre imprimo nella mente la figura del mio dottore che va via.



    Penso che ci siamo lasciati in un modo davvero triste (sospiro).



    In quel momento ecco che il suono di un nuovo messaggio mi richiama alla realtà (tutte le mie pedine sono adesso in gioco).



    Estraggo il cellulare dal taschino interno della giacca.



    Sto aspettando… -JM



    E’ veloce. Ha già messo sulla scacchiera tutte le sue pedine.



    Lascio aperta la cartella dei messaggi salvati (mi basterà premere un pulsante per inviare il messaggio giusto).



    Adesso è l’ora di giocare.





    ***




    Respiro affannosamente (effetti collaterali del tricloroetilene o disperazione al pensiero di quello che deve accadere?). Le mie mani nei capelli, i miei occhi sul corpo di Moriarty (né completamente vivo né completamente morto).



    Adesso tutte le pedine di Moriarty sono nella posizione giusta per fare scacco (la partita non finirà con un matto del barbiere [13] da parte sua).



    Le punte dei miei piedi, adesso, sporgono di pochi centimetri dalla superficie del tetto.



    Prendo il cellulare, lascio scivolare verso destra il dito sullo schermo. Schermata dei messaggi salvati nelle bozze. Ne seleziono uno.



    Piano F -SH



    Invio.



    Guardo giù (18 metri; 59,055188 piedi).

    Mi si spezza in gola l’ultimo dolore (si avvicina un taxi).



    Il taxi si è appena fermato (aspetto di vedere John uscire dall’auto prima di inviare la chiamata).



    Eccolo (parestesia agli arti inferiori, in parte dovuta all’esposizione prolungata alla trielina).



    Compongo il numero (lo conosco a memoria). Corre in mia direzione mentre cerca il cellulare nella tasca sinistra.



    “John”.



    “Hey Sherlock, tutto bene?” (Affanna, inoltre la sua voce non è tranquilla).



    “Voltati e torna da dove sei venuto”.



    “Sto arrivando” (continua a correre in mia direzione).



    “Fa come ti sto dicendo!” (Mi fermo per pochi istanti). “Per favore”.



    Si ferma. Voltandosi indietro ricomincia a parlare (“Dove?”). Cammina e si guarda in giro, a destra e a sinistra (suppongo cerchi di intravedermi nel caos urbano).



    “Fermati lì” (tentativo di mantenere un tono di voce fermo).

    “Sherlock…”

    “Ok, guarda in alto: sono sul tetto”.



    Si volta piano, sussurra qualcosa che suona come un’imprecazione.



    Mi fermo momentaneamente, ripeto più di una volta il pronome personale di prima persona singolare (ansia o effetto collaterale della trielina?).



    “Io” (incespico di nuovo) “Io non posso scendere, quindi noi dovremmo proseguire in questo modo”.



    John sussurra ancora qualcosa di cui non riesco a delineare i contorni precisi.



    “Ti devo delle scuse”.

    Mi fermo momentaneamente e penso che sto per spingere giù Sherlock Holmes dal tetto di quell’ospedale.

    “E’ tutto vero”.

    Muore ogni centimetro di me ad ogni singola emissione vocale.



    “Cosa?” (La voce di John mi appare così spaesata, adesso).



    “Tutto ciò che hanno detto su di me” (mi fermo prima di saltare il prossimo ostacolo). “Io ho inventato Moriarty” (mi volto e fisso quel corpo né completamente vivo né completamente morto).



    Otto secondi pausa. Li conto ad un ad uno mentre sento che sto scivolando sempre più giù, sempre più in fondo.



    “Perché dici così?” (La sua voce, adesso, affonda nella paura e nello sconforto).



    Attraverso un altra pausa prima di iniziare a parlare di nuovo (e adesso sento un nodo alla gola impossibile da sciogliere).



    “Sono un impostore”.



    “Oh, Sherlock…!” (Disperazione?).



    “I giornalisti avevano ragione” (deglutisco prima di continuare). “Voglio che tu lo dica a Lestrade, voglio che tu lo dica alla signora Hudson e a Molly”.



    Mi volto momentaneamente verso Moriarty mentre pronuncio l’ultimo nome. Non avevi pensato a lei, vero?



    “Devi dirlo a chiunque voglia ascoltarti!” (Mi fermo per poco prima di lanciare l’ultima dichiarazione). “Io ho creato Moriarty per scopi personali”.



    Riesco a vedere le crepe che dai miei ricordi affiorano alla superficie del mio corpo.



    “Sherlock smettila, ora basta. La prima volta che ti ho visto, la prima volta che ti ho visto, sapevi tutto di mia sorella, giusto?!”.

    
“Nessuno è tanto intelligente!”.



    “Tu sì”.



    Rido (mi bruciano il volto quelle lacrime che mi rigano le guance).



    Ripenso agli ultimi diciotto mesi della mia vita. Sono stato felice? Nella mia mente gli occhi di John. Piango tutto il mio dolore (le lacrime di una vita intera, tutte quante in un solo istante).



    Una goccia di dolore precipita dal mio mento per poi disintegrarsi sulla mia sciarpa.



    “Io ho fatto delle ricerche” (le mie labbra hanno il sapore del sale). “Prima di incontrarti ho fatto tutto il possibile per impressionarti”.



    Mi sembra di vedere me stesso mentre calpesto tutta la mia esistenza.



    “Era un trucco, un semplice trucco” (si sovrappongono alle mie parole i dissensi di John).



    “Sherlock, smettila adesso!” (Cammina verso l’entrata dell’ospedale).

    “No, rimani esattamente dove sei!”



    Torna indietro (si posiziona comunque più avanti rispetto alla posizione precedente). Il suo braccio destro si alza in mia direzione (allungo il mio braccio sinistro verso di lui).



    (“Non muoverti!”).



    Sento che quella mano protesa verso di me mi sta scavando nel petto. Vorrei stringergli la mano (accarezzargli il dorso della sua mancina con il pollice).



    (“D’accordo”).



    Penso che non ci sarà un domani per noi.

    Ormai le parole si sono fatte lontane (e non è un effetto collaterale della trielina). Mi chiedo quanto alterata sia per John la visione di questo evento (a causa del tricloroetilene).



    (“Tieni gli occhi fissi su di me!”).



    Le lacrime scendono senza sosta. Potrei piangere tutti i miei liquidi corporei, adesso.



    (“Fallo John, te lo chiedo per favore”).



    Ritorno all’odore della sua pelle e all’ammorbidente dei suoi vestiti. Percezioni che ho ben stampato nella memoria.



    (“Fare cosa?”).



    Raccolgo le forze per portare a termine la mia tattica (proseguo verso l’autodistruzione).



    “Questa chiamata è” (mi fermo, tiro su con il naso) “è il mio biglietto” (mi fermo di nuovo mentre sento scendere ancora un altra lacrima sul mio viso). “E’ così che le persone fanno, no? Lasciano un biglietto”.



    “Lasciano un biglietto, quando?”.



    “Addio John”.



    Dissensi dall’altra parte della linea.



    Resto fermo altri pochi istanti prima di lanciare via il cellulare.



    Respiro (profondo).



    Come un vettore la cui origine parte dalla testa di cui l’estremo libero è il cuore.



    Le mie braccia si aprono, chiudo gli occhi (ripercorro i tracciati della sagoma di John). Le mie braccia come le ali dei miei angeli.



    Apro gli occhi (tutto sta per compiersi). Moriarty.

    Scacco matto.







    E adesso risuona solo un vecchio grido già sentito.

    (“SHERLOCK!”)






    ***




    “Ero così solo e ti devo così tanto”.

    Le sue mani sulla lapide nera, lucida (‘Sherlock Holmes’ laccato in oro).

    Ha gli occhi cerchiati, non cammina bene. La sua voce non è ferma e lascia trasparire tutti i suoi sentimenti (rabbia, tristezza, confusione).



    Si allontana da quel pezzo di marmo nero piangendo.



    “Ti prego, c’è ancora una cosa; un ultimo miracolo per me, Sherlock” (si volta e torna indietro). “Non” (incespica sulle parole, inciampa ad ogni accento) “essere” (si ferma di scatto) “morto” (il suo tono di voce è diventato incredibilmente più acuto).

    “Potresti…” (soffoca le lacrime) “potresti farlo per me? Voglio che la smetta, smetti questa farsa”.



    Mi irrigidisco. Vorrei poter uscire allo scoperto e stringergli le dita delle mani (no, non è ancora il momento).



    Si stringe nelle spalle, adesso. Piange con il mento sul petto.



    Le mie mani scivolano nelle tasche del cappotto.



    Osservo la sua figura mentre si volta e riprende svelto il suo cammino (il suo corpo tende a destra).



    Il mio dottore, il mio soldato.



    Ho il volto contrito e la pelle secca. Gli occhi bruciano come non facevano da anni.



    Sono passati diciotto mesi da quell’incontro (“Afghanistan o Iraq?”). Credo di aver compreso ed assimilato più cose in diciotto mesi con John Watson che in diciannove anni con gli Holmes.



    Le mie dita sfregano la pelle coperta dagli strati di tessuto (la camicia, la giacca, il cappotto). Ogni volta penso che sia l’ultima.

    Non è facile smettere (sapendo di non avere chi mi toglie le dita dallo stantuffo della siringa ipodermica).



    Talvolta la cocaina rende instabili i contorni della figura di John.



    John Watson.



    Non avevo mai amato nessuno.



    Scivolo nell’ombra del mio cappotto e mi dirigo, a passi lenti, all’uscita del cimitero (come un vettore la cui origine parte dalla testa di cui l’estremo libero è il cuore).



    Sensazione di vuoto sotto la pelle.



    Sono privo di identità (Sherlock Holmes l’impostore è ormai morto).



    Sciolgo la mia rabbia nel pensiero di un altro buco sulla pelle.





    ***




    Ore 8.27 p.m. Sette gradi scarsi all’esterno. Tè?

    Domenica, Dicembre (24).

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).



    Le mie mani restano vuote mentre resto fermo nel centro di Londra.



    Nessuno si ricorda più di me.



    Deglutisco mentre, appoggiato ad un albero, vengo illuminato dalle luci della mia città. Ho le labbra fredde, gli occhi secchi. Guardo la felicità altrui nel periodo più brutto dell’anno.



    Il mio volto si perde nella luce di un appartamento al secondo piano a Cranbourn St.



    Si ride ad ogni angolo delle strade di Londra (mentre si suona musica adatta alla festività).



    Dalla finestra appaiono due figure.



    Sospiro mentre sento che gli angoli della bocca si sono automaticamente piegati verso l’alto.



    La mia mente segue tutte le curve delle sue mani mentre apre la finestra, tutti i tracciati percorsi dalla ricrescita bianca dei suoi capelli, ogni piega sul suo meraviglioso mosaico di rughe sul viso.



    Ride, ride tanto ed è anche un po’ ingrassato. Sembra stia bene. Mi sembra di aver visto un riflesso su una delle dita (non ha mai indossato anelli, suppongo sia la fede).



    Si allontana dalla finestra ma è ancora visibile. Abbraccia una donna bionda, sicuramente Mary (lei sa tutto).



    John indossa un maglione rosso con dei disegni norvegesi bianchi (nuovo).



    Imprimo nella mente questa visione mentre i due spariscono lontani dalla finestra (felici).





    Ripercorro a piedi la strada che va da Cranbourn St al cimitero dove sono stato sepolto (mi sento lì, adesso). Prima passo per Baker St.



    Non penso a nulla, e non ho nulla a cui pensare.



    Scivolo per le strade di Londra come se fossi un estraneo.



    La mia Baker Street è illuminata poco. Mi sembra di sentire l’odore di casa mia.

    Le luci nel 221 sono spente; nessuno abita al 221b o al 221c. La signora Hudson passa il Natale con i figli, come ogni anno.



    I vetri delle finestre del 221b sembrano impolverate (forse lo sono).



    Con le mani in tasca e privo di qualsiasi identità mi tuffo di nuovo nel caos metropolitano della mia città.



    Una signora sui quaranta mi sbatte contro. Mi chiede scusa e se ne va, dimenticandomi.

    Non sa che con uno sguardo solo ho letto tutto quello che potevo dalle sue scarpe (costose ma consumate, ne deduco quindi che sta affrontando un periodo di crisi economica), dai suoi accessori (gioielli di valore ma opachi, usati presumibilmente solo per le occasioni come le feste natalizie), dalle sue gambe (peli bianchi, visibili sulla gonna nera, all’altezza del ginocchio; suppongo abbia un cane di grandi dimensioni), dalla fede al collo e dal colore dei vestiti (vedova da molto, dato l’abbigliamento).



    I cancelli del cimitero sono ancora aperti (“sbrigati che dobbiamo chiudere!”).



    Con poca voglia e con il nulla nella testa, i miei piedi arrivano fino alla lapide nera, priva di illuminazione propria (come un vettore la cui origine parte dalla testa e di cui l’estremo libero è il cuore). Mi concentro momentaneamente su quell’epitaffio, ormai così lontano da ciò che sono adesso (“confusione” a grandi lettere maiuscole su quella lapide nera che sento così invadente sotto la pelle). Mi siedo e guardo la terra sotto di me.



    Sotto la mia mano una busta bianca.



    La apro come se stessi scartando un regalo. Con delicatezza lascio uscire il foglio dalla busta.



    “Buon Natale Sherlock,

    John Watson”.




    Leggo e rileggo quel messaggio. Lo stringo a me mentre mi dico che distruggere me stesso per lui sia stata la cosa più razionale che potessi fare.



    Ripenso a ciò che John mi ha insegnato.



    Ad amare, suppongo (si allontana il pensiero della cocaina). Deglutisco. Ripercorro tutte le volte che ha dovuto medicarmi. Ripercorro tutte le volte che mi ha ripreso dicendomi che non dovevo utilizzare le persone (come cose, come oggetti). Ripercorro tutte le volte che il suo buonsenso si è scontrato contro la mia immoralità. Ripercorro tutte le volte che ci siamo abbracciati, baciati, amati.



    Sento di non avere realmente bisogno di un altro buco.



    Mi stringo nel cappotto pensando a questo Natale senza la sua presenza (e le sue idee riguardo tale festività).



    Quel biglietto tra le mani mi fa sentire meno solo. Mi fa sentire più Sherlock Holmes.



    Porto la testa all’indietro poggiandola alla mia lapide.



    Gocce d’acqua sul mio viso (non è solo pioggia). Concerto per violino e orchestra op. 64 in mi minore, Mendelssohn (come i vecchi tempi). Odiavo Mendelssohn (e ora?).



    Non c’è stato un domani, quel giorno. Ma un domani ci sarà comunque. Dovrà esserci.



    Questa sera sono di nuovo io, con te.





    Sherlock Holmes,

    consulting detective.





    Buon Natale, John Watson.















    ***



    Note






    [1] “Le mie mani si poggiano sul disco nero, lucido”. Non sarà canon da nessun punto di vista, ma quel disco nero e lucido è un disco in vinile. Pardon, da ascoltatrice “vecchio stampo” non riuscivo a pensare a Sherlock che ascoltasse musica in maniera diversa.

    [2] “Scherzo (sempre Mendelssohn)”. “Scherzo” è un’indicazione agogica.

    [3] “Alessitimia”. L’alessitimia è l’incapacità di percepire, riconoscere e descrivere i propri e gli altrui stati emotivi.

    [4] “Billy che mi comunica il suo affetto”. Billy è il nome del teschio di Sherlock.

    [5] “Sogno di una notte di mezz’estate”. Le musiche di scena di “Sogno di una notte di mezz’estate” sono state composte da Mendelssohn.

    [6] “Romanze senza parole”. Titolo della raccolta di quarantotto brevi brani composti da Mendelssohn, gli stessi citati un paio di righe più su.

    [7] “Ricerca dell’oblio o dell’esaltazione?”. Nel canone Sherlock Holmes fa uso di due sostanze: morfina e cocaina; decide di fare uso dell’una o dell’altra in base alla crisi da cui è colto.

    [8] “Flash (sensazioni orgasmiche in ogni millimetro cubico del mio corpo)”. Quando la sostanza viene iniettata per via endovenosa, il soggetto prova una singolare sensazione di euforia chiamata “flash” che dura qualche minuto; spesso spinge il soggetto a ripetere l’iniezione con una seconda dose. Il flash è seguito da una fase di depressione chiamata down.

    [9] “Sig. Holmes, sono venuta da lei perché un tempo ha aiutato la mia datrice di lavoro, Cecil Forrester”. Nel canone Mary Morstan va da Holmes proprio perché quest’ultimo ha risolto il caso della sua datrice di lavoro, tale Cecil Forrester.

    [10] “(Forse) con te farei l’amore (solo con te). Demisessualità. Lo lessi in un libro parecchi anni fa”. La demisessualità è un orientamento sessuale appartenente alla Gray Area del triangolo di Aven. I demisessuali provano desiderio ed eccitazione sessuale solo come conseguenza ad un forte e singolare attaccamento romantico/emotivo.

    [11] “Qualcosa riconducibile al Runner’s High”. Con il termine “Runner’s High”, letteralmente “sballo del corridore”, si intende quella sensazione di euforia riscontrata da molti atleti durante e dopo la pratica sportiva prolungata. Tale condizione neurochimica è dovuta al rilascio di endorfine da parte dell’ipofisi durante l’esercizio fisico di media o lunga durata. Le endorfine agiscono sul fisico come se fossero una vera e propria droga.

    [12] “Filofobia”. La filofobia è la paura di innamorarsi o di amare una persona.

    [13] “Non finirà con un matto del barbiere da parte sua”. Il matto del barbiere è una trappola d’apertura scacchistica. Consiste in un particolare scacco matto che avviene dopo poche mosse. Tutto si concentra sulla casella f7 controllata dal nero che, difesa solo dal re, non vanta di una efficace posizione di difesa. In questo errore (ovvero nella possibilità di rendere possibile lo scacco all’avversario già dalle prime mosse) incappano spesso molti principianti.

     
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