Epitaph

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  1. ~ Ritux
     
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    Parte 1







    ***








    Prima di ogni cosa voglio e devo ringraziare la mia beta reader (sei la migliore, dico davvero), Ann Mitchell; senza di lei non sarei riuscita a finire questa impresa titanica. Perchè sì, lei non è stata solo una beta (ribadisco: la migliore) ma la mia personalissima portatrice di luce. Non esistono parole per definire ciò che ha fatto, e continua a fare, per me. Grazie mille, ma che dico, grazie anni luce.



    Passiamo alla storia. In genere non mi piace scrivere prima dell'inizio ma sono obbligata a farlo per una serie di circostanze. Per prima cosa perdonatemi per la lunghezza; sì, avete ragione cari lettori, non è semplice leggere una fanfiction da 23000 parole, ma spezzarla sarebbe stato nocivo per quanto concerne l'atmosfera e la linearità. E' scritta in "blocchi" e l'intervallo di tempo tra un blocco e l'altro non è regolare: possono esserci tre blocchi narrativi che seguono gli avvenimenti di una giornata esattamente come possono esserci tre blocchi narrativi che seguono avvenimenti accaduti a mesi di distanza. Il lettore ne sarebbe uscito confuso se avessi deciso di spezzarla in più capitoli. Secondo avvertimento: in questo racconto ci sono numerosi riferimenti alla droga e alcuni blocchi narrativi sono incentrati su questa tematica. A chi si è sentito turbato già solo dalla descrizione: non leggetela. Dico sul serio, non vi azzardate a leggerla. Vi potrebbe disturbare parecchio. Terza e ultima cosa: inizialmente potrebbe apparire difficile seguire questa storia dato lo stile narrativo scelto (volutamente telegrafico). Nel corso del racconto, comunque, cambierà; resterà, sì, telegrafico ma diventerà decisamente più lineare e introspettivo (anche qui: volutamente). Come accennavo nella descrizione, questa storia narra della crescita interiore del personaggio.



    Detto questo, grazie a chiunque abbia deciso di tuffarsi in questa sciocchezzuola che, in quanto durata, fa invidia a quel colosso che è "Il Titanic". Buona lettura.













    Epitaph





    "Confusion will be my epitaph.

    As I crawl a cracked and broken path

    If we make it we can all sit back and laugh.

    But I fear tomorrow I'll be crying,

    Yes I fear tomorrow I'll be crying"








    Ore 7.28 a.m. Undici gradi scarsi all’esterno. Fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?



    Domenica, Febbraio.


    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano parallele al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, fischia.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Non sento più alcun fischio.



    Dolore alla caviglia (contusa?). Ricordarsi di mettere una pomata analgesica.



    Rumore di passi che si avvicinano. Sembra che tu ti stia trascinando (nuove ciabatte, suppongo siano molto più grandi del numero che porti).



    Porta che si apre (rumore, fastidio). Due tazze; una nella mano destra, l’altra nella mano sinistra (le nocche della mano destra sono più rosse, probabile che ti sia scottato involontariamente).



    “Ti ho fatto il tè”.

    “Lo vedo”.



    Sorride (guarda altrove).



    Letto matrimoniale. Troppo grande per una persona sola (dormo sul lato sinistro).

    Lenzuola e piumone sul mio lato (c’è posto anche per te, se vuoi).

    So che vorresti.

    Lo so.



    Si siede al mio fianco, mi porge quella tazza di tè che mantiene nella sinistra (bollente).

    Inspira, espira. Inspira. Poi espira di nuovo.

    Soffia nella tazza.

    Aspetta che si raffreddi.



    John Watson è un uomo incredibilmente ordinario. Conosco tutto di lui. Mi basta osservarlo per capirlo (l’ultima frontiera sarà leggergli i pensieri).



    Canticchia (cerco di ricostruire le note). Mi rimanda a una vecchia canzone del ‘74 (“don’t let the sun go down on me”?). Odio quell’album. Odio la musica pop.

    Non smette di canticchiarla. Non lo fermerò, cercherò di prolungare la sua permanenza al mio fianco il più possibile.



    “Casi?”.

    “Per oggi intendi?”.

    Annuisce, poi beve.

    “Aspetto che Lestrade mi chiami, è improbabile che arrivino clienti in una piovosa e fredda domenica di Febbraio”.

    Annuisce (di nuovo), continua a bere. Bevo anche io. Mi guarda negli occhi, sorride.



    Conto le tue rughe. Ogni mese si aggiunge una ruga in più al mosaico di pieghe sul tuo viso.

    Più le conto e più sembra concreto lo scorrere del tempo (quel che ci resta da passare insieme).



    “Ieri all’ambulatorio è venuta una madre con un bambino”.

    “…Sì?”

    Non riesco a seguire con tanta facilità questi discorsi (odio incontrollabile per le conversazioni senza argomento preciso).

    “Il piccolo indossava un maglione molto simile a uno dei miei, quello blu a costine”.

    Annuisco (irrilevante).



    “Ieri Lestrade ha detto che dovrei trovarmi qualcosa da fare che non riguardi i casi”.

    “Greg non ha tutti i torti, ogni essere umano si lascia trascinare da hobby, passioni…”.



    Bevo (noia).



    Vorrei far entrare le persone nella mia testa (in realtà non ho così tanta voglia di farlo).

    Farei entrare te nella mia testa.

    Sei l’unico a cui aprirei le porte del mio Palazzo Mentale.



    “Hai intenzione di rimanere a casa, Sherlock?”.

    “Hm”.

    Risposta atona (non so cosa dirti, John).



    “Hai qualcosa da fare, tu?”.

    “No, niente”.

    Scuote la testa.



    Bevo.



    I nostri piedi non si toccano, ma riesco a sentire lo scontro tra la temperatura bassa dei miei e quella alta dei suoi.

    Capelli bianchi (un ciuffo più chiaro parte a qualche centimetro dall’orecchio, si espande poi nella massa di capelli biondo cenere).



    Bevo.



    “Pioverà tutta la giornata?”.

    Mi guarda, è serio. Leggo nei suoi occhi un gran punto interrogativo.

    “Cosa c’è? Adesso parliamo del tempo?”.

    Sorride (no, ora ride).

    Resta con gli angoli della bocca puntati verso l’alto, mento sul petto, occhi fuori dalla finestra. Solo adesso noto un piccolo taglio dietro la nuca (l’ultimo caso ti ha portato delle ferite di guerra?)

    Mantengo la tazza con la mia mano sinistra (il tè è ancora molto caldo, ma adesso può essere bevuto in modo relativamente facile). La mano destra lungo il materasso (lieve pressione al mio fianco, i movimenti di John fanno scivolare la mia mano verso di lui).



    La pioggia adesso batte forte.

    Adesso ci sono anche i tuoni.

    (Prendere nota: uscire con l’ombrello, indossare gli stivali).



    “Ti ricordi di Elizabeth?”.

    Mi volto (i miei occhi si concentrano sulla sua bocca). Elizabeth?

    Ricerco nel mio palazzo mentale.

    Elizabeth.

    Terzo piano, corridoio 5, stanza 6.

    Elizabeth Ann Short, Black Dahlia. Caso irrisolto di omicidio. 15 Gennaio 1947. Principali sospettati: Robert M. Manley; Walter Alonzo Bayley, Joseph A. Dumais, Woody Guthrie, George Hodel, Norman Chandler, George Knowlton, Orson Welles, Jack Anderson Wilson. Probabile nesso con l’omicidio di Georgette Bauerdorf e di Suzanne Degnan (entrambi riconducibili al Macellaio di Cleveland o al Killer del Rossetto). Sul corpo della vittima non fu rinvenuto il tatuaggio di una rosa sulla coscia destra della vittima (fonti certe riguardo la presenza di quel tatuaggio).

    Elizabeth.

    Ottavo piano, corridoio 13, stanza 38.

    Elisabetta di Baviera, principessa Sissi. 1898, lungolago di Ginevra. Assassinata dall’anarchico italiano Luigi Lucheni da una stilettata. Morì venti minuti dopo per emorragia interna al ventricolo sinistro.



    “John, la Dalia Nera? O forse alludi alla duchessa di Baviera?”.



    Un grosso punto interrogativo sul suo volto. Mi sembra di vederlo mentre (piano piano) risucchia gli occhi e la bocca di John in quel grande ricciolo incuriosito (fastidio, quella visione mentale provoca confusione).

    “In realtà intendevo quella mia collega all’ambulatorio. Non so se riesci a ricordarla… è bassa, capelli ricci e corti, bruna…”.

    No John, è ovvio che io non la ricordi. E’ inutile ricordare delle persone che non apportano alcun cambiamento positivo o negativo alla ricerca e alle indagini investigative.

    “No, non mi sembra di ricordare questa donna”.

    Deluso.

    Sorride (non sei deluso?).

    “Non importa”.



    Si alza. Il mio corpo perde il baricentro mentre il dottore (il mio dottore) si alza dal letto. Mi guarda (ti guardo).

    “Se mi cerchi, sono di sopra, ho da sistemare delle cose”.



    La porta che si chiude (sbatte) mi riporta a quella freddezza ben nota.

    Ore 7.39 a.m. Undici gradi scarsi all’esterno.

    E poi la mia tazza è vuota.








    ***






    Concerto di Mendelssohn nella testa (perché?).

    A me non piace Mendelssohn.

    Suono?

    Le mie mani si poggiano sul disco nero, lucido [1]. Mendelssohn. Parte l’ouverture. Allegro molto? Dodici minuti circa (non l’ho mai apprezzato realmente).

    John mi ha ripetuto più volte di non suonare (e di non far suonare i dischi) di notte. Inutile. Questa sera c’è solo Mendelssohn.

    Ho una mosca nell’orecchio (La Dalia Nera?).

    Studiare un vecchio caso (perché?).

    Elizabeth Ann Short, Black Dahlia. Ventidue anni. Squarciata a metà nel ‘47. Vistosi segni di tortura e manipolazioni ante e post mortem. I principali sospettati sono un chirurgo, un soldato, un medico, un cantante folk, un editore, un regista e un alcolizzato; di altri due non conosciamo la professione. Profonde lacune indiziarie per Manley, Dumais (nonostante si sia auto-accusato), Guthrie, Chandler e Wilson. Ci restano, di conseguenza, Bayley (il chirurgo), Hodel (il medico), Knoltown (di cui non conosciamo la professione) e Welles (il regista).

    Di Knoltown e di Hodel abbiamo solo testimonianze e accuse da parte dei figli.

    La vedova Bayley ci riporta invece testimonianze di un “terribile segreto” a cui faceva riferimento il marito.



    No, niente del genere.



    Tra i vari sospettati spicca il nome dell’auto-accusato Joseph A. Dumais. Nonostante le svariate prove che dimostravano la sua presenza in New Jersey nel giorno della morte della Dalia Nera, il soldato continuò ad auto-accusarsi dell’omicidio di Elizabeth Ann Short. Fu condannato più volte per reati minori. Continuava a ripetere di essere l’assassino. Perché?

    Mi rimanda al regista Orson Welles.

    L’uomo aveva prestato servizio militare nella seconda guerra mondiale. Welles, per divertire i soldati al fronte, conduceva spettacoli di magia in cui si dilettava in illusioni che comprendessero tagli effettuati a metà corpo e poi “magicamente” risanati. L’uomo amava i tagli. Aveva creato un set cinematografico per “La signora di Shangai” in cui tutti gli attrezzi di scena erano tagliati. Considerava il taglio come una sua personalissima firma.



    Complici? Hanno in comune un fronte e un sospetto per omicidio.

    Dumais non avrebbe avuto alcun guadagno nel coprire Welles, a meno che gli interessi non fossero di natura extra-personale.



    Troppo semplice.



    Scherzo (sempre Mendelssohn) [2]. Circa cinque minuti. Volgare.



    Dovrei dormire.



    Passi sulle scale (pesanti, lenti). Sono sul divano (il mio volto in direzione della finestra). La porta si apre. Passi. Ecco, entra. Si ferma (mi guarda?). Si siede sul pavimento (la nuca sul mio braccio sinistro).

    “Non immagini quanto ti faccia bene riposare”.

    “Anche a te farebbe molto bene, eppure sei qui”.

    Testa all’indietro (più indietro). Cerca un contatto visivo con me (nonostante il buio).



    “Non riesco più a fare sogni tranquilli in questi giorni”.



    Non so cosa fare (non m’interessa?). Non è vero, sono interessato a lui. Non posso aiutarlo. Mi guarda (di nuovo). Conforto? Una mano (la mia) sulla testa (la sua).

    Mi stringo nelle spalle. Alessitimia [3], mi avrebbe urlato uno dei tanti camici bianchi che ho incontrato nella mia vita.



    Si alza (vai via?). No (si siede al mio fianco). Mano (la sua) sulla fronte (la mia). Mano (la sua) tra i capelli (i miei). Leggera pressione sulla mia testa. Confuso.

    Si avvicina (labbra sulla mia fronte). Odore di dopobarba (nuovo, alla menta).

    Si alza.

    Va via.

    Non dice nulla.



    Alessitimia.

    Sento ancora l’odore di quei camici bianchi e le urla di un bambino che non voleva guardarli.








    ***






    Ore 7.12 a.m. Nove gradi scarsi all’esterno. Aspetto il fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?

    Lunedì, Febbraio.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano parallele al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, sta per fischiare.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Adesso sento il fischio del bollitore.



    Il dolore alla caviglia sembra essere passato (non era una contusione).



    Confuso.

    Labbra (le sue) sulla fronte (la mia).

    Affetto?

    Ho riservato a questi eventi un corridoio nel mio palazzo mentale.



    Nono piano, corridoio 3, stanza 1: mia madre che mi porta mano nella mano al parco (non c’erano risentimenti in quegli anni?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 8: Billy [4] che mi comunica il suo affetto (è stata davvero la morte prematura che ti ha allontanato da me?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 15: mio padre che mi tocca i capelli (era ancora mio padre quello lì?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 24: Mycroft che si complimenta con me per aver risolto il mio primo caso ufficiale (c’erano già rancori?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 38: John che si complimenta con me in generale (mi stimi davvero così tanto?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 41: John che mi abbraccia (perché provavo così poco fastidio in quel contatto fisico?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 45: John che mi dice di volermi bene (io riesco a volerti così bene?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 49: John che mi stringe la mano (come faceva mia madre?).



    Nono piano, corridoio 3, stanza 51: John che mi bacia la fronte.

    Non lo dimenticherò.




    Rumore di passi che si avvicinano. Sembra che tu ti stia trascinando (sono sempre quelle nuove ciabatte più grandi del tuo numero? Presumo di sì).



    Porta che si apre (rumore, fastidio). Due tazze; una nella mano destra, l’altra nella mano sinistra (le nocche della mano destra sono ancora rosse).



    “Ti ho fatto il tè”.



    Annuisco.

    Sorride (guarda altrove).



    Quotidianità.

    Adesso prenderai posizione al mio fianco (come tutte le mattine) e mi porgerai la tazza che mantieni nella sinistra. Mi farai qualche domanda, cercherai di raccontarmi qualche aneddoto avvenuto all’ambulatorio. Mi parlerai di qualche donna che mi sfugge e che non sono interessato a ricordare.



    Sto bene (mi sembra).



    Sogno di una notte di mezza estate. [5]







    <span style="font-size: 26px;">***






    Ore 7.31 a.m. Dodici gradi scarsi all’esterno. Fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?

    Martedì, Febbraio.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano parallele al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, fischia.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Continuo a sentire quel fastidioso fischio.



    Non mi sembra di avere più quel dolore alla caviglia. Non ho usato alcuna pomata analgesica. Sicuramente non era contusa.



    Il fischio si arresta.

    Aspetto solo i passi di John.



    Confuso.

    Mi sembra di essere un embrione che galleggia nel liquido amniotico (lontano dal mondo).

    Noia? Non ho un caso da tre giorni.



    Confuso.

    La mia mente continua a vagare su strane percezioni provocate dalle dita che si incontrano (si scontrano) nello scambio di una tazza, sulle braccia che cingono il corpo in un abbraccio, sulle labbra che si posano sulla fronte in un bacio.



    Pensiero delle tue labbra sulle mie.



    Marcia Nuziale, Mendelssohn. Volgare, grossolana.



    Ti amo.







    ***






    Primo sparo contro il muro (crepe dalla forma circolare a mezzo metro dal divano, verso l’alto).



    Forse dovrei ritornare alla cocaina.



    Secondo sparo contro il muro (altre crepe dalla forma circolare a mezzo metro dal divano, verso l’alto).



    La cassetta.

    L’ho nascosta in una buca coperta da una mattonella.




    Terzo sparo contro il muro (si è appena sollevato un pezzo del parato).



    E’ sotto il comodino, nella mia stanza.



    Passi di corsa per le scale. Non sono i passi di John. Questi sono svelti ma leggeri (il peso del corpo sulla punta dei piedi). La signora Hudson.



    “Sherlock! Il mio muro!”

    Mi volto, la guardo. Sbuffa. Si guarda in giro (gli angoli della bocca verso il basso, le estremità interne delle sopracciglia rivolte verso l’alto).

    “Hm…”.

    Soffia.



    “Caro…” .

    Compassionevole.

    “Hai fame?”.



    Mi guarda, braccia conserte, occhi dolci. Il tono di voce è rassicurante.



    “No, non ne ho”.

    Abbassa la testa, mi sorride (mi guarda dal basso). Va via.



    Affondo nella mia poltrona. La pistola è calda, lucida.



    Bisogno di cocaina (perché?).



    Passano i giorni (la mia brama di eccitazione è la mia personalissima cura alla noia o all’attrazione romantica nei confronti del mio dottore?).



    Non è ancora tempo per un altro buco sulla pelle.







    ***






    Ore 7.18 a.m. Dodici gradi scarsi all’esterno. Fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?

    Mercoledì, Febbraio.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano parallele al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, fischia.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Il fischio si è appena arrestato.



    Quotidianità.



    I passi di John sul pavimento (le ciabatte nuove), la porta che si apre, la pressione sul lato destro del mio letto mentre il dottore (il mio dottore) si siede al mio fianco. Dita che s’incontrano, tazze di tè. Discorsi su donne che non conosco (o che non ricordo?), nessun argomento fisso. Piedi che si avvicinano, mani nei capelli, sguardi. Lamenti (noia), consolazioni. Baci sulla fronte, baci sulla guancia.

    Poi andrai via, ti preparerai per andare all’ambulatorio.



    Splendida quotidianità (sto davvero così bene?).



    No.



    Lieve pressione sul lato destro del mio letto mentre il dottore (il mio dottore) si siede al mio fianco. Mi porge la tazza (incontro delle dita, scontro tra i nostri indice e medio). Sorriso (stanco?). La sua tazza sul comodino.



    Inaspettato.



    Testa sulla mia spalla (destra) braccio (destro) intorno alla mia vita.

    Confusione.

    Non mi parlerai di donne, oggi?



    “Ho il turno pomeridiano”.

    “Hm”.

    Risposta atona.



    “Ieri Mycroft mi ha chiamato, ma ero fuori con Lestrade e non ho sentito il cellulare. Ho provato a richiamarlo ma non mi ha risposto”.

    “Hai chiesto a Lestrade perché non condivide più i casi con me?” (tono della voce troppo alto, ciò provoca silenzio).

    “In ogni caso credo che Mycroft passerà in giornata” mi dice (mi stringe più forte).

    Restiamo fermi.



    Bevo.



    Quarantotto brevi brani per pianoforte composti da Mendelssohn.

    Mendelssohn continua a suonare tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro.

    Romanze senza parole. [6]



    “Sei di poche parole in questi giorni”.

    Sorprende i miei pensieri.

    “Non ho nulla da dirti, John”.

    Il dottore (il mio dottore) si stringe nelle spalle. Spinge la testa verso il mio collo. Sospira. Il suo respiro sulla mia pelle (solletico).

    “E’ la noia” (la mia voce è più profonda di prima).

    Sospira (di nuovo). Mi stringe forte (il suo piede destro tra i miei). Pressione sul mio corpo. In altre situazioni mi avrebbe infastidito.

    Alza la testa (piano).

    “In questi giorni ho pensato allo storico omicidio della Dalia Nera”.

    Di nuovo un punto interrogativo sul suo volto.

    “Perché?”.

    Noia?

    Alzo le spalle, guardo verso la finestra. Non lo so.

    I suoi occhi cercano un contatto visivo con i miei (quella ruga sul lato esterno dell’occhio destro diventa di giorno in giorno più marcata). Sorride (mosaico di pieghe sul volto).



    Mi alzo dal letto, allungo le gambe (dolore alle caviglie?). Il mio corpo si spinge in avanti. Blocco (ostacolo?). Una mano mi tira indietro. Mi volto. Continua a tirare (fastidio). Il mio corpo ricade sul letto (mi posiziono frontalmente al suo corpo, la gamba destra sotto di me)

    Mi avvicino a lui con il busto. Mi abbraccia (forte, fastidio, confusione).

    Contatto fisico (più irruente di prima).

    Le sue mani dietro le mie spalle, le sue labbra sulla clavicola (la mia) sinistra.

    Ricerca veemente del contatto fisico (perché?). Mi cogli impreparato.



    Variations Sèrieuses (Mendelssohn).

    Pianoforti che accarezzano il trasporto di quel momento.



    La mia mano (sinistra) sale verso il suo volto. Le sue labbra si staccano dalla mia clavicola (mi guarda). Mi bacia il collo (sensazione strana).



    “Sherlock…” .



    Mi bacia il mento (percezione singolare).



    Sospira (continua a parlare).



    “Tu… insomma” (si ferma). Riparte. “Credo che la nostra sia…”



    Esitazione (tensione? Paura?)

    “…Sia qualcosa di diverso da una…”

    Classica amicizia?

    “da un…" (esita) "rapporto normale tra amici”.



    Mi bacia di nuovo sul mento (più vicino alle labbra, questa volta).

    Amore? Non c’è sesso. Affetto.

    Ti amo (senza sesso?).



    “Abbiamo superato un limite che non dovevamo varcare”.

    Abbiamo?



    Mi bacia sulle labbra.



    Concerto per violino e orchestra op.64 (Mendelssohn).

    Resto fermo. Le labbra di John sono calde, morbide.

    Contatto fisico. Strano (fastidio?)

    Timore (perché?).



    Si allontana, mi guarda.

    “Non posso. Non ti piacerà. Soffrirò. Soffriremo entrambi”.



    Mi bacia sulle labbra (di nuovo).

    “Ti stancherai”.



    Un altro bacio sulle labbra. Partecipo.

    Movimenti a ritmo con l’andante di Mendelssohn.

    Sensazione incomprensibile alla mia psiche. Labbra che si muovono, si schiudono. Carezze.

    Contatto fisico (desiderato?).

    Ultimi lievi tocchi sulle mie labbra prima che si stacchi di nuovo (desiderio di rimanere lì).



    “Ti stancherai”.

    Abbassa la testa e la poggia sulla mia spalla sinistra, fronte a contatto con il mio collo.



    Mi stancherò. Le persone mi stancano (sempre). Mi stancherò anche di John (il mio dottore?). Potrei ignorare la cosa (irrazionale). Al contrario potrei prenderla in considerazione (razionale) ma decidere di non dare peso al problema (irrazionale).

    Potrei prenderla in considerazione e agire di conseguenza (razionale).

    Lasciarlo andare. E’ questa la reazione razionale a tale situazione?



    “Richiederebbe impegno, costanza. Potremmo fare un tentativo, ma…”

    Lo guardo. Esitazione. Alza la testa.



    “…Mi stancherei” (la mia voce baritonale echeggia nella stanza).



    La sua testa di nuovo sulla mia spalla (pressione).



    “Lo riconosci anche tu”.



    Si alza. I piedi sul pavimento (passi pesanti). La mano sul pomello della porta (gira verso destra, apre, esce).





    Freddo.

    Dodici gradi scarsi all’esterno. Apparenti trenta gradi celsius sotto lo zero nel mio corpo. Mi sembra di vedere una distesa antartica che si estende sulle coronarie.



    L’allegretto ma non troppo di Mendelssohn si conclude tra strumenti scordati e violini spezzati.







    ***






    Ora di pranzo (convenzionalmente). Fame?

    Un’auto nera (un vecchio modello di BMW) appena parcheggiata sotto casa.

    No, non ho fame.

    Passi sulle scale (lenti, regolari, pressione nella norma applicata dalle punte dei piedi). Si ferma dietro la porta (tempo di ripresa del respiro?).

    “Credo che tu debba continuare la tua dieta” (grido).

    Apre la porta, mi guarda. Volto corrucciato. Mycroft (questa volta hanno sbagliato a fare le pieghe dei pantaloni, visibile la linea della stiratura).

    “Non ho tempo da perdere, Mycroft”.

    Riprendo a suonare (quinto di Paganini).

    “Rilevanza nazionale” accenna (banale). Si siede sulla poltrona di John (John è uscito?).



    Non lo ascolto. Accenna qualcosa riguardo narcotrafficanti e missili balistici. Se non erro mi sembra di aver sentito anche qualcosa a proposito di patti internazionali.



    Non avrei collaborato.

    Continuo a suonare.



    Ho accennato l’op.4 di Berg, ma Mendelssohn continuava a urlarmi nella testa. Da Paganini a Berg, da Schubert a Mendelssohn. Inizio a delineare qualcosa dal concerto per violino e orchestra in re minore (è già buio).

    Si apre la porta. Continuo a suonare. Termino l’andante. Ripongo il violino, l’archetto e il poggia spalla nella custodia. Mi volto. Mycroft non c’è (immagino sia andato via da un pezzo), al suo posto c’è John che legge il giornale.



    “Quella roba che hai suonato… bella, davvero” (non stacca gli occhi dal giornale).

    “Grazie”.

    Lo guardo (parole pesanti che scivolano tra me e lui).

    “Volgare Mendelssohn”.

    Deglutisce e volta pagina.



    Fare finta di nulla. E’ questa la sua reazione razionale alla situazione di stamane?



    E’ il momento di tornare alla cocaina.







    ***






    Ore 7.53 a.m. Otto gradi scarsi all’esterno. Nessun fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?

    Giovedì, Febbraio.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano perpendicolari al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, ancora non fischia.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Non sento alcun fischio.



    Guardo l’orologio (tardi).



    Rottura di una quotidianità (confusione).



    Mi alzo, apro la porta, attraverso il corridoio. Il salotto è vuoto. Silenzio. Mi stringo nella vestaglia blu.



    Rumore di passi celeri per le scale. Apro la porta, guardo su (eccolo, sta scendendo). Vestito, capelli in ordine. Mi guarda svelto, farfuglia qualcosa (“Se vuoi il tè sai dov’è il bollitore”), va via.



    Noia e delusione (non so quale delle due sensazioni mi faccia più male). Distesa antartica sulle coronarie (credo si estenda anche al ventricolo destro).

    Pressione nella parte alta dell’addome, apparente sensazione di pesantezza. Respiro irregolare. Le gambe faticano a reggere il peso. Questa situazione mi confonde.

    Quotidianità interrotte, elaborate poi dai centri sottocorticali dell’encefalo (l’amigdala riceve impulsi direttamente dai nuclei posteriori del telamo) che provoca reazioni autonomiche e neuroendrocrine con lo scopo di mettere in allerta l’organismo (accelerazione del ritmo cardiovascolatorio, ritmo respiratorio irregolare, aumento della tensione muscolare, sudorazione, midriasi pupillare).



    Attraverso (di nuovo) il soggiorno, la cucina, il corridoio. Arrivo nella mia stanza. Solo. Sposto il comodino, mi piego (polvere). Cerco la mattonella traballante.

    Trovata.

    La alzo. Intravedo la scatola di legno. La prendo.



    Pausa.



    Sono deluso? Amareggiato? Arrabbiato?



    Irrazionalità.



    Osservo la cassetta: legno scuro tendente al rosso (mogano?), apertura in ottone laccato oro (graffi su questa ed intorno ad essa). Mani che tremano (tremano ogni volta).

    Mi siedo sul letto (ricerca dell’oblio o dell’esaltazione? [7]). Nella scatola due boccette, siringhe ipodermiche sterilizzate (buste opache), aghi, laccio emostatico.



    Ricerca dell’esaltazione (ovviamente).



    E’ la noia che altera le mie condizioni psicofisiche. Cambierà. Tutto cambierà. Ho la cura alla mia noia.



    Il laccio emostatico che preme sul braccio.



    L’ago nella vena (la pelle si piega verso il basso fino a raggiungere il punto critico in cui cede, momento in cui l’ago raggiunge la vena).



    Flash (sensazioni orgasmiche in ogni millimetro cubico del mio corpo). [8]







    E adesso ci siamo solo io e la mia euforia.







    ***




    L’esaltazione dura poco (dolori alla testa, sensazione di rigetto). Due dita in gola, riflesso faringeo. Sto meglio.



    Ginocchia sul pavimento (freddo), mani sulla testa, nei capelli. Occhi rossi, miosi pupillare. Forti rumori all’esterno (qualcuno sta sbattendo la porta del bagno, chiama il mio nome). Confusione. Stringo i pugni, cerco di alzarmi, cado. Dolore al petto, ritmo respiratorio irregolare. Prendo grosse boccate d’aria, chiudo gli occhi. Confusione. I pugni contro la porta. Guardo il mio braccio (sinistro); osservo l’ultimo segno sulla mia pelle. Lieve parestesia al braccio (sinistro). Normale. Forti rumori (il mio nome urlato a squarciagola). Confusione.



    Mi rialzo (dov’è l’euforia che avevo fino a qualche ora fa?), apro la porta. Il tempo di osservare una bocca che si spalanca e poi il buio.





    ***



    Lenzuola (fredde) sul mio corpo. Piumone? Assente all’appello. Alla mia sinistra c’è metà del mio letto (perfettamente in ordine). Io dormo sempre a sinistra, ora sono a destra. Mi volto (verso destra). John (mi guarda). Ha una mano sulla mia testa? Nei miei capelli.

    La luce mi infastidisce.

    “Hai avuto una sincope” (non constatare l’ovvio, John). “Perché? Perché ti fai questo?”.



    Mi concentro sulla sua bocca. Le parole adesso si confondono, perdono di significato (non parlare, John). Le sue labbra; spaccature sul labbro inferiore (ansia? Oppure hai avuto paura?).



    Mendelssohn mi perseguita (Allegro ma non troppo, suoni di violini che sovrappongo inconsciamente alla visione del mio dottore).



    Mi spingo in avanti, cerco la sua bocca. Lo bacio. E’ perfetto così (dentifricio). Lo bacio (di nuovo). Le sue labbra, la sua lingua, la mia mano dietro la sua nuca, il peso del suo busto contro il mio corpo (esaltazione maggiore di quella provocata dalla cocaina?).



    La sua testa sul mio petto.



    Confusione.



    Ti amo.







    ***






    Sabato, Febbraio. Ore 12.34 a.m.

    Sono passate due settimane dalla sincope. Dopo la cocaina sono tornati i casi, le corse per tutta Londra, il tè la mattina.



    Non riavrò quei baci.

    Sembra voglia ignorare di sua spontanea volontà (perché?).



    Ho appena chiuso un caso di triplice omicidio. Mi aspettavo che John si complimentasse con me (come sempre). Non l’ha fatto (rientra nella tua tattica?).



    Incrocio le gambe, mani sui braccioli della poltrona.



    La cassetta non è più sotto la mattonella ma è lì, sul camino (John, credi davvero che questo possa servire? Stupido). La guardo. Un odio mistico nei suoi riguardi, un amore passionale. Versatile. Capacità di donarti euforia e oblio.



    La cura per la noia.



    Potrei davvero adesso, mentre John è qui al mio fianco, prendere la scatola e farmi un’altra dose.



    Non lo farò (non per me o per John). Un’auto si è appena fermata sotto casa (un’Aston Martin d’epoca). Adesso suonerà il campanello.



    Eccolo.



    Pressione per più di mezzo secondo (cliente). Non mi muovo dalla poltrona. John si alza, posa il giornale, si sistema la camicia.



    Passi sulle scale, voci femminili (riconosco quella della signora Hudson).



    La porta si apre.



    “Buongiorno, sto cercando il sig. Holmes”.

    Voce incerta. Non mi volto, mi limito a rispondere (“Prego”).

    “Sig. Holmes, sono venuta da lei perché un tempo ha aiutato la mia datrice di lavoro, Cecil Forrester” [9].

    Annuisco. Ricordo quel caso. Inutile.

    John si siede dietro di me lasciando la (sua) poltrona libera. La donna si avvicina (piano), poi prende posto dinnanzi a me.

    “Il mio nome è Mary Morstan”.

    “Il caso della Forrester era una banalità”.

    “Il mio non lo è”.

    Sorrido.

    “Prego, esponga pure” (accompagno quanto detto da un movimento in avanti operato dal braccio sinistro).



    “Mio padre era un soldato. Negli anni ‘90 ha prestato servizio nella prima guerra del golfo ma, terminata questa nel ‘91, continuò a servire il paese in quelle zone di guerra. Mia madre si ammalò gravemente in quegli anni, poi morì. All’epoca la persona che assunse la mia potestà fu mia zia paterna. Talvolta ricevevo lettere da mio padre. E’ sempre stato molto affettuoso nei miei riguardi. L’ultima lettera mi arrivò nel ‘01: mi annunciava lietamente il suo ritorno. Mi disse di raggiungerlo al Langham Hotel, Londra centrale. Per me Londra era una città nuova: ho vissuto a Edimburgo per tutta la mia vita, di conseguenza temevo di non riuscire ad orientarmi. Mi presentai lì, chiesi del colonnello Morstan, mio padre; mi dissero che era uscito la sera prima e che non era più tornato. Lo aspettai per tutto il giorno, poi decisi di sporgere denuncia. Mio padre, da allora, non fu più visto da nessuno”.

    Annuisco. Mani giunte sotto il mento.

    “Cosa aveva con sé?”.

    La donna mi guarda, si ferma (pensa).

    “Il bagaglio… ma non ricordo ci fosse qualcosa di rilevante”.

    “E questo può essere detto perché la valigia si trovava in albergo, giusto?”.

    Fa cenno di sì con la testa.

    “Continui”.

    “Circa sei anni fa mi arrivò una raccomandata con ricevuta di ritorno. La busta era indirizzata proprio a me e conteneva una perla di rara bellezza. Da quella volta, ogni anno, mi arriva una perla attraverso posta raccomandata. Un esperto, amico mio, mi ha dichiarato che si tratta di perle di altissimo valore”.

    Continuo ad ascoltare, scivolo nella poltrona (sempre più in basso).

    “Ma lei non sarebbe qui se non fosse successo davvero qualcosa di diverso, signorina”.

    Mi guarda. Sorride.

    “Oggi mi è arrivata questa lettera” mi porge la missiva sporgendosi verso di me (mentre lo fa, osserva John dietro la mia spalla sinistra).

    Guardo la busta. Timbro postale Londra S.W., data 18 Febbraio. Osservandola mi sembra di riuscire a vedere l’impronta del pollice destro di un mancino. Nessun indirizzo. Apro la busta. Carta pregiata. Leggo la lettera ad alta voce.

    “Lyceum Theatre, 20 febbraio, ore 7.00 p.m, terzo pilastro da sinistra. Porti due amici (se vuole). No polizia. Le è stato fatto un grave torto e lei avrà giustizia”.

    Mi fermo. Guardo la reazione della donna di fronte a me.

    “…Firmato ‘Sconosciuto’”.

    Le porgo di nuovo la busta. Osservo John (che osserva la donna).



    “La busta con le perle conteneva anche qualche messaggio?”.

    “Sì, c’era sempre un biglietto con su scritto il mio nome”.

    “Ha con lei quelle lettere?”.

    Abbassa la testa, fa cenno di no.

    “Però, sig. Holmes, posso assicurarle che è la stessa grafia!”.

    Pausa.

    “Non può essere la grafia di suo padre? Non vorrei darle false speranze…” (dottore, tu guardi ma non osservi).

    “John, è chiaramente una grafia contraffatta”.



    Pausa.



    “Un’ultima domanda” (continuo a guardare il soffitto) “Suo padre aveva amici qui a Londra?”.

    “Solo uno, per quanto ne sappia. Un tale maggiore Sholto”.



    Pausa (di nuovo).



    “Cosa devo fare, sig. Holmes?”



    Accavallo le gambe, guardo il soffitto.



    “Ha due amici con cui visitare ‘Sconosciuto’ questa sera, signorina Morstan”.





    ***




    Ore 7.22 p.m. Taxi.

    La Morstan mi ha appena mostrato un biglietto interessante (riconducibile al caso? Verificare). Sembra sia una mappa indicativa (non conosco abbastanza parametri da poter definire il luogo). Firmata “Il segno dei quattro”. Il padre della donna che ho alla mia sinistra conservava questo biglietto nel portafoglio (il lato sinistro, quello all’interno, non è consumato quanto il lato destro, ovvero quello che si trova all’apertura della tasca interna). Inoltre non era solito tirarlo fuori dalla sua locazione (i segni delle piegature sono così marcati che il foglio potrebbe spezzarsi lungo queste).



    John e Mary parlano. Discorsi insulsi (“Ho sempre voluto fare il medico, in realtà”, “Io, invece, non ho mai desiderato lavorare come segretaria in un ufficio, però poi mi sono accontentata lo stesso”).

    Pause. Si guardano.

    Si conoscono complessivamente da circa 30 minuti.



    Ho un’illuminazione. Aspetterò di ritrovarmi sul luogo per confermarla.

    Comunicarla con John? Al mio fianco c’è Mary Morstan.

    Mi volto (cerco John). Trovo altro.



    Il mio sguardo si ferma su quelle mani, l’una nell’altra, mentre continuano a discutere di argomenti insulsi (“Abbiamo molto in comune, dottor Watson”, “John, chiamami John”).







    ***




    Giovedì, febbraio. Ho chiuso il caso da appena due ore. Tè?

    Sono molto soddisfatto, il caso è stato davvero interessante.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Tesori dal Medio Oriente. Rapimenti. Inseguimenti in barca. Tracce di creosoto. Adrenalina.

    Adesso l’ipofisi inizia a produrre significative quantità di endorfina. Piacevole. Rilassante.



    Tè?

    Il mio sguardo si concentra su quella cassetta sul camino (no, non ho bisogno di te per ora).

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).



    Mi alzo dal divano, cerco John.

    (“evita di chiamarmi, per cortesia, questa sera sto con Mary”).



    Mi fermo. Il mio corpo cade sul divano (forte). Midriasi. Confuso.

    Pensiero delle mani di Mary in quelle di John.



    Serata insieme. Ceneranno (penderanno l’uno dagli occhi dell’altro). Guarderanno un film insieme (un film che sia abbastanza noioso da non permettere ad entrambi di concentrarsi troppo sulla trama). Si toccheranno. Si baceranno.



    Faranno sesso.



    Concentrarsi così poco sulla mente umana per lasciare spazio al desiderio erotico. Inutile.



    Durerà poco (come sempre). Sarà troppo difficile per John scegliere tra me (il caos) e la donna del momento (il cosmos). Non c’è compromesso tra le dita in frigo (il tè della mattina) e l’amore di una donna (sesso regolarmente).



    La riforma, Mendelssohn (allegro con fuoco).



    Suono?







    ***




    Sabato, Aprile. Ore 10.28 p.m.

    Dura più del previsto. Questa sera Mary è a casa con noi. Gira per casa (il suo sguardo indaga sul microscopio).



    “Cosa stai… uhm…” (indugia sul termine da usare) “…Osservando?”.

    “…Studiando”.



    I nostri discorsi sono costellati di pause, tempi gravi alternati ad improvvisi confronti a ritmo di un allegretto qualsiasi.

    Mary Morstan è una delle tante; niente di più, niente di meno.



    “Idrocarburi policiclici, adesso sto studiando alcune caratteristiche molecolari dell’Isoprene”.



    Mi guarda.



    “Ah sì… l’Isoprene…”.

    “Non sforzarti di apparire più intelligente, non ci riesci”.



    Pausa. Sguardo nell’oculare.



    Pressione (violenta) alla spalla sinistra. Riconosco l’origine del vettore nella sua mano destra, al contrario non riesco a definire l’estremo libero. Spinta. Si allontana, va verso il soggiorno (da John).



    E’ così stupida. Non si è nemmeno accorta che sul vetrino non ho nulla.



    Andante con moto - Allegro maestoso (Mendelssohn) che si confondono nella visione di un caldo abbraccio da parte di John.

    Con te mi sbilancerei. (Forse) non mi stancherei. Amore (senza sesso)? Affetto. Contemplazione.

    Medito.

    Amore.



    Confuso.



    Con te oserei. (Forse) baratterei i miei casi per te.



    (Forse) con te farei l’amore (solo con te). Demisessualità. Lo lessi in un libro parecchi anni fa. [10]



    Una mano dietro la schiena (pressione, familiare, sussultazione, piacere). John.



    “Giochiamo a carte, vieni?”.

    Lo guardo. No, non voglio venire (preferisco continuare ad inalare trielina in quantità industriali).

    “Sherlock, mi farebbe piacere”.

    No, non voglio venire, lasciami solo.

    “Non ti prometto che giocherò a lungo, John”.



    Il mio corpo verso il soggiorno (come un vettore la cui origine parte dalla testa e di cui l’estremo libero è il cuore).



    Mary sorride (sincera). Colpa (mia).



    Sei in bilico tra il suo amore e il mio indefinito sentimento (proprio come io, adesso, sono in bilico tra la sempre fedele sfera razionale e la tanto agognata sfera irrazionale).





    (“Non posso. Non ti piacerà. Soffrirò. Soffriremo entrambi. Ti stancherai”).



    Lasciarti andare è stato così poco razionale, John.





    ***




    Ottetto per Archi, Mendelssohn. John e Mary si sfiorano le dita, si guardano negli occhi. Portarli sulla scena del crimine è stato un errore (“John, ho bisogno di te, vieni?”, “Ma questa sera sto con Mary…”). Mano nella mano. Lestrade mi si avvicina, saluta John (e Mary), mi mostra quanto ritrovato sul corpo della vittima (ventidue anni, maschio bianco, Liverpool). Nel portafoglio più biglietti del Cavangh’s Bar, un interessante biglietto con dei disegni (Ciliegia, campanella, win. Sembrano disegni di una slot machine), e un foglio strappato (H. ascolta 275FM).



    Brixton, ore 11.57 p.m.

    Entriamo in un appartamento, uomo morto sul pavimento. Mi guardo in giro (Gregson e Athelney Jones della narcotici). Fiale di morfina sparse per la casa (spacciatore? Verificare).

    Mi chino sul corpo. Noto subito il colpo di pistola (calibro 50, suppongo) alla nuca. Dev’essere stato sparato ad una distanza ravvicinata, dal momento che il segno del proiettile si trova proprio al centro della nuca (sparare a media distanza al centro della nuca con una calibro 50 è impossibile). Il sangue è ancora relativamente fresco, è stato ucciso da poco.

    “Sherlock, non hai bisogno di un dottore per capire che si tratta di un colpo di pistola…” (la voce di John è più bassa del solito).

    Mi alzo, mi guardo di nuovo in giro. Suppongo ci sia stata una lite prima della morte dell’uomo (verificare). Sul tavolino altri biglietti del Cavangh’s Bar. Ci sono anche dei bicchieri di popcorn (alcuni pieni, altri vuoti, altri consumati a metà) del Cavangh’s Bar. Cliente assiduo (verificare).



    “Mary non tocc-” (interruzione brusca della frase). “Ma cosa diavolo…?!” (voce stupita di John). Mi avvicino. Mary ha alzato un bicchiere di popcorn e vi ha trovato una fiala di morfina attaccata al fondo con del nastro adesivo.



    Questo caso potrebbe rivelarsi interessante (ho già nove idee sulle possibili soluzioni, mi servono solo altri pochi indizi). Prendo il cellulare, cerco il Cavangh’s Bar. Trovato. Old Compton Street, Soho.



    “John, andiamo al Cavangh’s Bar”.

    Mary incrocia le braccia, mi guarda (infantile).

    “Non era proprio il modo migliore per passare questa serata”.



    Spero se ne vada, mi distrae.



    John la prende per mano, le dice qualcosa. Peccato. Lestrade mi farfuglia qualcosa (“Ricordati che devi trovare l’assassino, non girare troppo intorno alla cosa. Ci sono già quelli della narcotici che se ne occupano”).



    Taxi. Old Compton Street.



    Mary continua a discutere. Inutile (John è interessato al caso).

    (“Non girare troppo intorno alla cosa”).

    Farò il lavoro della narcotici e il lavoro della omicidi abbastanza velocemente da chiudere completamente il caso.



    Sinfonia n.2 in Si bemolle maggiore, Mendelssohn.



    Il taxi si ferma. Arrivo. Scendo dall’auto. Pago. Cerco il Cavangh’s tra tutti i locali aperti. Trovato. Mi dirigo lì. Il luogo è caratteristico: un locale old style poco illuminato (spiccano le slot machine all’angolo). Al Cavangh’s Bar servono anche popcorn (c’è un tizio che ha appena ordinato un bicchiere, lo mantiene molto basso). Mi chino (fingo di allacciarmi le scarpe), guardo il fondo del bicchiere quando mi passa accanto. Come immaginavo, ecco una fiala di morfina attaccata sul fondo. Così (dannatamente) facile.



    John mi tocca la spalla, mi fa cenno con gli occhi di guardare verso la porta in fondo al locale (il mio sguardo era già puntato lì). Uomini che entrano ed escono (c’è un cameriere che mantiene la porta aperta quando passano, si guarda in giro con aria sospetta).

    Suppongo ci sia una frase, un codice, qualcosa di identificativo che permetta a quegli uomini di entrare. Ci penso. Trovato.



    Mi avvicino alla porta (sento Mary dire di avere paura, di tornare a casa).



    “Fermi là… che volete?”.

    (John si guarda in giro) “Entrare” (strabuzza gli occhi).

    “Cosa ascolta H.?”.

    “275FM” sorrido (avevo visto giusto).

    “Entrate”.

    Ci apre la porta.



    Facile (adesso le idee sono già quattro).



    Scendiamo le scale (buio). Una luce sembra apparire in fondo. Eccola.



    Una grande stanza piena di slot machine (c’è anche un tavolo da biliardo). Come immaginavo. Mi avvicino alla prima slot machine. Cerco di ricordare la sequenza (Ciliegia, campanella, win). Tiro giù la leva. Appare la campanella al secondo posto. Premo il pulsante hold. Tiro giù la leva di nuovo. Niente. Tiro giù di nuovo. Appare la ciliegia al primo posto. Premo il pulsante hold. Tiro giù la leva di nuovo. Niente. Tiro giù di nuovo. Ancora niente. Tiro ancora una volta. Al terzo posto appare win.

    Rumore di meccanismo (qualcosa si è sbloccato). Tocco la slot machine (ai lati, sopra, davanti). Trovato. Si è aperto un cassetto. Mi chino.

    Fiale di morfina in quantità.



    Interessante. Mando un messaggio a Lestrade (“Cavangh’s Bar, ora. Porta un mandato di arresto. Ho fatto prima della narcotici. -SH”).



    “La puttanella lì chi è? E’ nuova?”.

    Voci. Si riferiscono a Mary (ignora). Si stringe contro John.



    Mi guardo in giro. Dev’esserci un responsabile. Ripenso a “H. ascolta 275FM”.



    (“Harry Hunt mi sta alle costole. Gli devo ancora 6347£”)



    Faccio cenno a John di salire. Usciamo da quella sala poco illuminata e ci ritroviamo di nuovo nel bar.



    John e Mary escono (istintivamente), io mi fermo al banco. Ascolto le conversazioni. Niente di interessante. Chiedo un bicchiere di whisky.



    “Quanti siete qui?” chiedo.

    “Che intendi?”.

    “In quanti lavorate in questo posto. Siete pochi per un locale così frequentato”.

    “Siamo di più. Alcuni escono… consegne, sai.” mi guarda mentre butto giù la sostanza alcolica.

    Osservo la situazione. E’ appena tornato un altro dipendente del Cavangh’s (il suo volto sembra scosso). A lui si avvicina l’uomo che mi aveva servito da bere (si allontanano, si fermano vicino allo scaffale delle bottiglie). Parlano. Ascolto (con estrema attenzione).

    (“Sono nei guai fino al collo. Sono arrivati prima del previsto”, “Ti hanno beccato?”, “No, ma lo faranno. Non voglio più avere niente a che fare con Hunt. Basta!”, “Calmati Mick”, “Al diavolo!”)



    Harry Hunt offre un doppio servizio sia ai clienti che ai lavoratori. I clienti possono usufruire del bar e della droga. I lavoratori sono pagati sia per il loro servizio al bar sia per gli omicidi su commissione. Eppure siamo entrati con estrema facilità all’interno e nessuno ci ha chiesto soldi. Questo significa che il cliente può usufruire illimitatamente delle sostanze stupefacenti (sia attraverso il bar che le slot machine al piano di sotto). Ma dovranno pur rendere il denaro all’organizzatore di tutto questo…



    H. ascolta 275FM. Per entrare in possesso del codice suppongo che i clienti vengano schedati. Una sorta di… abbonamento. Interessante quanto innovativo.

    Harry Hunt, quando il debito dei clienti diventa troppo alto, manda uno dei suoi dipendenti a uccidere l’uomo in questione. E lui, ovviamente, sa di chi si tratta perché ha i suoi dati schedati da qualche parte.



    Invio un altro messaggio a Lestrade (“Harry Hunt ha mandato l’assassino di Johnson, Mick Harrison, dipendente del Cavangh’s Bar. Qui sono tutti assassini su commissione -SH”).



    Caso semplice ma interessante. Esco.



    Fuori c’è Mary che piange (“Tu non capisci, ho avuto paura!”). Inutile. Non sarò io a consolarla.






    ***




    Martedì, Giugno. Ore 9.48 p.m. Caffè?

    John sulla poltrona (osserva un punto indefinito dinnanzi a sé).

    Grazie ma non ne voglio questa sera.

    Angoli della bocca verso il basso, midriasi pupillare, muscoli delle gambe tesi. Triste e deluso (verificare). Fuori piove a dirotto. Esco? Dubbio (ricordarsi di portare l’ombrello). No, resto con John. Mi siedo sulla poltrona (la mia), lo guardo. Scuote la testa. Adesso abbassa il capo. Pensa.



    “Non è finita. O almeno non ha detto così” (pausa). “Tornerà, so che tornerà” (pausa).

    (Pausa lunga).

    “Ha dato la colpa a te. Riteneva che i casi fossero per me più importanti di lei…”.

    “Lo sono, John”.

    “Sono cose diverse” (soffia).

    “Lo sono. Hai ignorato tutte le volte che ti ha chiesto di tornare a casa. Hai ignorato tutte le volte che ti ha comunicato le sue paure. I casi sono più importanti per te, è evidente”.



    Lunga pausa. Sbuffa. Vuole dirmi qualcosa, esita (ti ascolto).



    “Non volevo lasciarti solo, come sempre. Perdere te mi avrebbe fatto decisamente più male, lo sai bene Sherlock”.



    Sonata per viola in Do minore (Mendelssohn). Minuetto immaturo, futile. Prendo il violino (custodia, poggia spalla, archetto, strumento), suono ad orecchio. Venticinque minuti di pausa. Tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro appare quella viola (sembra che pianga).





    “Inizio davvero a supporre che non sarebbe stata una cattiva idea provarci con te…”.

    Ore 10.13 p.m. L’archetto si ferma di scatto sulle corde. Venticinque minuti di pausa (già passati?).

    Ride (sono confuso). Mi volto, lo guardo.



    “Non sono la seconda scelta”.



    Riprendo a suonare (Sinfonia n. 4 in La Maggiore, Mendelssohn).



    “E’ vero, non sei la seconda scelta” (si ferma, mi guarda). “Forse Mary è stata la seconda scelta…”.



    Continuo a suonare (volutamente). Sono passati quasi cinque mesi da quei baci, quelle dichiarazioni. Dolore.

    (“Soffrirò. Soffriremo entrambi”).



    Mani che mi cingono la vita, testa contro la mia schiena.

    (“Ti stancheresti”).



    “Non sei la seconda scelta, Sherlock” (abbandono il violino e l’archetto sulla superficie piana più vicina).

    (“Mi stancherei”).



    Il mio è un sentimento indefinito (ti amo). Non riuscirei a mantenere una relazione stabile con te (ti amo). Se andasse male si alzerebbe un muro (ti amo). Se andasse male te ne andresti via (ti amo). Se andasse male sarei di nuovo solo (ti amo).



    Mi volto (affondo nei tuoi occhi blu). La mia testa sulla sua testa, confusione. Lo stringo.



    Mendelssohn mi suona di nuovo la marcia nuziale tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro.

    Il suo volto verso il mio. Le sue labbra sulle mie. Adesso sono abbastanza cosciente (non c’è più la droga, non ci sono più i buchi sulla pelle).

    Le sue braccia che mi stringono in vita, le mie mani sulle sue spalle. Esitazione. Mi bacia, si allontana, poi mi bacia di nuovo. Guarda altrove. Le sue mani sul mio viso, di nuovo le sue labbra sulle mie (scontro di lingue, piacere). Lo guardo mentre mi bacia (ad occhi chiusi). La mano sinistra scende lungo il mio fianco, mi stringe a sé (di più). L’altra mano nei miei capelli, la mia sinistra sulla sua spalla, la destra sul suo volto.



    Mi bacia il collo (il suo respiro sulla mia pelle).



    Dopobarba alla menta (delicato), sapore di tè (earl grey). Sensazione della mia lingua contro la sua (piacevole).



    Si allontana (il suo naso a pochi millimetri dal mio). Un altro bacio, lieve, leggero. Non mi guarda negli occhi (ma riesco a vedere la sua midriasi pupillare). Mi prende le mani, la testa sul mio petto. Mi stringe forte.



    Interruzione (brusca).



    “Non posso” (si allontana di scatto, mi lascia le mani). “Sono stanco, davvero, è per questo che…” (si ferma) “è per questo che è successo tutto questo” (si allontana, testa bassa, va di sopra a passo svelto).



    Solo (io).



    Confuso (lui). Perché?

    E’ presto. Mary se n’è appena andata.



    Confuso (io).



    Concerto di Mendelssohn nella testa.



    Suono (meglio di no)?



    Mi dirigo nella mia stanza (“non immagini quanto ti faccia bene riposare”). Apro la porta. Ordine. Mi getto sul letto. Il mio cervello fatica a pensare in maniera sistematica. Rielaboro.

    Cosa non posso darti io?



    Confuso. Confuso sull’avvenimento, confuso su quello che provo, confuso sul mio indefinito sentimento nei suoi riguardi.



    Pensiero delle tue labbra sul mio corpo.





    La stanza è buia, gli unici fasci di luce entrano dalla finestra (sono fiochi, deboli).

    E’ una serata silenziosa. Non piove. Piacevole.



    Passano ore come se fossero minuti. Il mio cervello non riesce a scandire in maniera sistematica lo scorrere del tempo. Adesso è notte fonda (echi lontane di un orologio a pendolo).



    Rumore di passi (le scale, il soggiorno, la cucina, il corridoio). Ora è dietro la porta (eccola, piano si apre). Chiudo gli occhi.



    “Non immagini quanto ti faccia bene riposare, John”.

    “Anche a te farebbe molto bene eppure sei ancora sveglio”.



    Mi si avvicina. Si siede al mio fianco (a destra). No, ora si stende (nel mio letto, al mio fianco). Il suo petto contro la mia schiena. Braccio destro che mi cinge la vita.



    Le sue labbra sulla mia nuca (ricordi di uno sparo alla nuca visto solo un giorno fa).



    Buonanotte, John Watson.







    ***






    Dormiamo insieme ormai (ma nessuno dei due fa riferimento alla cosa prima di ritrovarci, al buio, sotto le lenzuola). Strana sensazione.



    Ieri mi ha detto che ero importante (per lui). Strana sensazione.

    Mi ha sussurrato qualcosa mentre si addormentava (“ti amo”). Strana sensazione.



    Vorrei saperti dire “ti amo” allo stesso modo in cui lo dico nei miei pensieri (perché ti amo anche io, vero?). Vorrei saperti abbracciare con fermezza.



    Strana sensazione di vuoto (che solo tu riesci a colmare).



    Aspetto (sono sul letto, sotto le coperte). E’ sabato (sarai uscito con Lestrade). (Ti) aspetto.





    Rumore di chiavi. Passi sulle scale. Passi per la casa. Ora sei dietro la porta (si sta aprendo). Sei nella stanza (riesco a vedere il tuo sorriso).



    “Tutto bene?”.

    “Direi di sì” (la mia voce è profonda).

    Chiudo gli occhi. Si muove, fa cose (ha appena aperto la finestra).

    “Cos’hai fatto?”.

    “Ho pensato”.

    Mi si avvicina (cauto).

    “…A me?” (esitazione).



    Sì, ho pensato a te. Penso sempre a te. Sei il fulcro dei miei pensieri (e risolvo i casi più velocemente per poter tornare a pensare a te).



    “Ho lavorato su un vecchio caso”.

    “La Dalia Nera?”.



    Si siede sul bordo del letto alla mia sinistra.



    “Io ti ho pensato” (mi sfiora la guancia con la mano sinistra).



    Se ci pensiamo a vicenda perché accalorarsi in questo scontro quotidiano? Perché essere così restii a dichiararci il mio indefinito sentimento e il tuo sconfinato amore? Paura, esitazione, ansia. Dolore.



    Si china su di me. Contatto leggero delle sue labbra sulle mie (sempre più intenso, sempre più forte). Scontro di lingue. La luce fioca sul comodino mi permette di osservare il suo volto mentre mi bacia. Si allontana (di poco). Le sue labbra sul mio collo, poi più su, verso l’orecchio. La mano sinistra sul mio petto.

    Piacevole.

    Affonda il naso tra i miei capelli (la mia destra sul suo collo).



    “Hai ripreso a fumare?”.

    Inutile che tu faccia domande di cui già sai la risposta. Accenno un movimento della testa associato ad un breve suono gutturale.

    Mi bacia sulla fronte (mi rimanda a quella fredda notte di Febbraio). Sorride.



    Lievi scie di profumo arrivano al mio chemiorecettore olfattivo. Piacevole.



    Mi bacia (ancora). I suoi baci diventano sempre più veementi (intimi). Una mano sotto la (mia) maglietta. Percorre l’ampiezza del mio torace con la mancina. Piacevole. Telotismo (interessante reazione del mio fisico a quel contatto). Il suo respiro si è fatto ora irregolare. Le mie mani dietro la sua testa, forte pressione delle sue labbra sulle mie (mi morde il labbro inferiore). Si allontana (ancora), velocemente si toglie le scarpe. Mi accorgo di quanto anche il mio respiro si sia fatto irregolare, svelto.



    Desiderio di John. Mai provato. Strano. Demisessualità.



    Il mio busto si solleva, si avvicina al suo. In un bacio mi butta di nuovo giù (affondo nel materasso schiacciato dal suo desiderio). Labbra sul mio lobo destro. Le mie mani si fanno spazio tra il mio corpo e il suo (cercano di sbottonare la camicia). Respiro la sua pelle (androsterone).

    Riesco a slacciare i bottoni della camicia. Le mie mani (entrambe) sul suo petto. Si piega indietro, si libera dell’indumento.



    Adesso è su di me (la sua gamba sinistra tra le mie gambe). Continua a baciarmi (intimamente). Eccitato. Sento l’erezione. Mi bacia sul collo, poi scende verso i capezzoli (succhia); scende ancora verso la pancia, il basso ventre (appaiono i primi peli pubici). Risale (inaspettato).



    Non riesco a pensare in maniera fluida. Intorno a me e dentro me c’è solo John (che mi tocca come nessun altro aveva mai fatto prima). Sensazione strana ma (decisamente) piacevole.



    Mi toglie la maglietta (freddo). Un altro bacio sulla bocca mentre (piano) cerca di tirare giù i pantaloni del pigiama. La sua erezione (visibile) preme contro quei jeans scuri.



    Tutto procede in maniera (sistematicamente) lenta. Perfezione. La sua mano sulla mia coscia destra mentre continua a baciarmi (scontro di lingue). Talvolta raggiunge l’orecchio e mi dice qualcosa (“Ti amo”).



    La mia mano sulla sua cintura (difficoltà nello slacciarla). Mi viene in soccorso (le sue mani sulle mie). Si tuffa al mio fianco (destro) e lascia che gli sfili i pantaloni (li abbandono in un punto indefinito fuori dal letto).



    Mi spinge sotto di lui. La sua erezione contro la mia (feromoni da tutti i pori). Le sue dita incrociate alle mie, altri baci.



    Con la sua mancina mi tocca l’erezione (la percorre con le dita nonostante la presenza di quel fastidioso tessuto sintetico tra la sua mano e la mia eccitazione). Sussulto. Soffoco un suono gutturale che non avevo mai prodotto prima.



    Ricordi dei miei tredici anni. L’eccitazione e il piacere erano dati dal sapere che avrei analizzato al microscopio il mio liquido seminale. Asessuale. Ho sempre creduto di essere quella punta nel triangolo di Aven (così spigolosa), e invece sono un punto indefinito nella grey area (caos lontano anni luce dal cosmos).



    Ritorno alle mani di John sulla mia (ormai libera) erezione. Piacere (quasi inibitorio). Respiro completamente irregolare. Reazioni neuro-muscolari involontarie (contrazioni ritmiche della prostata, dell’uretra e dei muscoli situati alla base del pene). Spasmi improvvisi in tutto il corpo. Piacere (inibitorio). Gemo mentre mi riverso nelle sue mani (mi bacia il collo mentre raggiungo l’apice dell’orgasmo). Sento che tutto questo non basta ma al contempo che è decisamente troppo per il mio fisico. Respiro (grandi boccate d’aria).



    John si stende al mio fianco (destro). Con un braccio mi cinge, mi stringe a sé. La mia mano attraversa prima il suo petto (mi soffermo momentaneamente sui capezzoli) poi scende verso il suo pube. Sfioro l’elastico, risalgo. Il mio corpo è ancora attraversato da scariche di eccitazione. Le mie labbra sulle sue (faccio scivolare la mia lingua nella sua bocca). Mi afferra la mano sinistra con la sua destra; lascio che mi guidi. La mia mano che esplora la sua eccitazione sotto la sua mano. Indescrivibile sensazione (imbarazzo?).



    Si libera anche di quel pezzo di stoffa.



    Ancora la mia mano sotto la sua che, adesso, esplora tutta la lunghezza (abbondanti quantità di liquido preseminale). Sotto la sua mano scopro anche i suoi testicoli.

    Seguo un’andatura lenta (indicazioni agogiche).

    Largo (mi carezza il viso).

    Adagietto (un bacio sulla fronte).

    Moderato (mi stringe a sé).

    Allegretto (occhi chiusi, respiro veloce).

    Vivace (sussurra il mio nome).

    Presto (gemiti, suoni gutturali spezzati).

    Prestissimo (i suoi fluidi caldi sulla mia mano).

    Largo (un bacio sulla bocca).



    Endorfine rilasciate dal lobo anteriore dell’ipofisi. Sensazione riconducibile a qualcosa simile al Runner’s High. [11]







    Restiamo fermi. Adesso c’è solo il silenzio.





    ***




    La testa di John scende verso la mia (rinnovata) erezione. Sono passate poche ore da quell’orgasmo. Sensazione estatica. Le mani del dottore (il mio dottore) premono contro l’asta (il pollice sul frenulo). Andante con moto, rilassante. Il viso di John è così vicino (imbarazzo?). Si avvicina con la bocca al glande (soffio sui miei tessuti erettili). La sua lingua su di esso (occhi chiusi).



    Il mondo si concentra in quell’istante (tutto sembra condensarsi in quel contatto).

    Ho chiuso le porte alle indagini, ai casi risolti e a quelli irrisolti (mi rendi così irrazionale), ho aperto qualcosa a te, solo a te (il mio cuore?).



    Indescrivibile (la sua lingua calda, ruvida, svelta, sicura). Le sue labbra attorno alla mia eccitazione (io sono lì, nella sua bocca, contro il suo palato, contro la sua lingua, sulle sue labbra). Le mie mani tra i suoi capelli. Adesso la sua lingua e le sue labbra scendono verso lo scroto (la mano sinistra mantiene l’erezione con ritmo cadenzato).



    Seguo i suoi movimenti, cerco di immaginarne le traiettorie (le tue mani come curve continue e derivabili nello spazio euclideo tridimensionale).

    L’emisfero destro comunica con il sinistro delineando le equazioni della legge oraria (s(t) = s0 + v0 t + 1/2 a t^2).



    Respiro veloce, irregolare (il mio). Il suo pollice (sinistro?) sul mio perineo. La mia testa all’indietro.

    Le sue mani contro le mie cosce, tira verso il mio petto (porto le ginocchia al petto). Le mantiene ferme. Così vulnerabile sotto il suo tocco (lo sono). Le sue mani esplorano le mie natiche (vedo il suo viso riavvicinarsi al mio corpo). La sua lingua sul mio ano. Le terminazioni nervose protestano per l’eccessiva quantità di stimoli esterni (leggeri movimenti della mia schiena). Sento la sua barba (poca). Pollice sinistro sul perineo. Le mie braccia abbandonate sul materasso (quasi non le sento, il mio cervello è concentrato solo sulle sensazioni provocate dalla sua lingua).



    (“Continua”).



    Quel pollice scivola in basso, dal perineo al mio ano (lo circonda, poi preme, entra). Le sue labbra sul mio scroto mentre conduce movimenti circolari con il dito (riflesso autonomo dello sfintere che si stringe). Estrae il pollice, prova con l’indice.



    Attimi che vengono scanditi in maniera erronea dal cervello (lunghi periodi equiparabili a brevi secondi).

    E’ così diverso da quello che ho sempre provato (l’eccitazione sessuale è così diversa dall’euforia provocata dalla cocaina). Strano. La mia mente cerca di comparare la negatività del buco e la positività delle sue mani sul mio corpo.



    Estrae di nuovo il dito, la sua lingua sul mio ano. Rimming. Adesso non è più solo sul mio orifizio anale (“Ti prego, non ti fermare”). Le sue labbra alla base del mio pene, pressione sull’ano operata da due dita (riesce a farsi spazio nonostante i riflessi autonomi dello sfintere). Trova la prostata. Lo vedo sorridere (come se avesse trovato l’Eldorado).

    La sua mano sinistra, inoperosa, continua a mantenere la mia coscia sinistra verso il petto.

    Le dita della sua destra, invece, si muovono talvolta in maniera circolare, altre volte percorrono la lunghezza del primo tratto dello sfintere. Estrae di nuovo le dita, replica la pratica del rimming. Suppongo che cerchi di abituare i miei muscoli pelvici alla penetrazione (data l’assenza di un lubrificante). Adesso prova con tre dita. Doloroso (ma piacevole al contempo). Dura poco. Avvicina il suo pene al mio ano, prova a spingere. Resistenza (aspettato).



    “Rilassati”.

    “Sono rilassato” (le mie mani dietro la nuca).



    Indefinito sentimento nei suoi riguardi; non è più amore senza sesso (pressione sull’orifizio anale provocato dalla sua lingua). Amore? Non è più senza sesso (eccitazione e desiderio provocati dalla visione del suo corpo contro il mio). Non riesco a pensare (picchi di eccitazione che interrompono il mio viaggio all’interno della mia psiche). Feniletilamine, analoghe alla dopamina (operano nei soggetti innamorati). L’amore è chimica e la sua chimica è comparabile all’anfetamina.



    Abbondanti quantità di saliva (lingua svelta). Piacevole (“Oh”).

    Secondo tentativo.

    Le mie gambe divaricate ospitano il suo corpo (caldo). Il suo petto contro con il mio (gli stampo un bacio sulla guancia). Il suo glande nello sfintere (doloroso).

    “Continuo?”

    Respiro (profondo).

    “Sì”.

    Spinge. Cerco di rilassarmi. Sensazione di dolore.

    “Fermati”.

    Lo fa. Si ferma. La sua testa contro il mio collo, affanno. Le sue dita sembra stiano contando le mie costole. Cerco di abituarmi alla sua presenza nel mio corpo (manca così poco).

    Respiro (profondo).

    “Continua”.

    Un bacio sul mio mento.

    Sento ancora la ribellione verso il pene di John da parte dei muscoli interessati (ma va meglio). Arriva in fondo. Si ferma. Di nuovo la sua testa contro il mio collo.

    Respiri irregolari.

    “Ti amo”

    Sorrido (sto davvero così bene?).

    Le mie mani tra i suoi capelli (odori inebrianti).



    Pausa.



    Inizia a muoversi (lento). A questo ritmo sembra piacevole (gli leggo in volto la difficoltà a mantenere quest’andamento).



    “Sei bellissimo”.

    (Guardo altrove, mi godo l’apprezzamento).



    Adesso si muove più veloce (nonostante sia più doloroso di prima, resta piacevole). Ha le labbra schiuse. Visione paradisiaca.



    Credo di aver iniziato a lanciare gemiti (accolti dai suoi soffocati gemiti di risposta).



    Più veloce.



    Ansima. Apre e chiude gli occhi in maniera intermittente (i miei sono invece ancora aperti, cerco di godermi ogni sua espressione, ogni sua reazione).



    Più veloce.



    Sono costretto a chiudere gli occhi. Fa male quando scende, è piacevole (smisuratamente) quando sale. Ansimo. Gemo. Credo di sentire la mia voce come un’eco lontano mentre gli comunico il mio stato (“Non fermarti, continua, sì, sì”).



    Credo di essere arrivato al limite.

    Sollevo le gambe e le porto dietro la sua schiena mentre stringo forte il suo braccio destro alla mia sinistra (all’altezza della spalla).

    Sensazione di estrema euforia che parte da dentro (“sta arrivando, sta arrivando”), poi l’apice del piacere (“John, sì John!”). Sto urlando (forse). In un gemito (lungo, pesante) si riversa anche lui nel mio corpo.

    Contatto intimo (lui dentro di me).

    Indescrivibile (siamo solo io e te, John).

    Piacere.



    Blackout nel mio cervello (le informazioni nel mio palazzo mentale viaggiano al buio). Piccola Morte.



    Esce. La sua testa sul mio petto, le mie mani tra i suoi capelli. Respiri lunghi, irregolari, profondi. L’eco di una risata mi sfiora, mi accarezza.



    Respiro il rilascio di endorfine. L’ipofisi posteriore è illuminato dall’ossitocina.



    (“Ti amo, Sherlock. Cristo, se ti amo!”)









    Sono come un vettore la cui origine parte dalla testa e di cui l’estremo libero è il cuore.







    ***




    Ti amo. So dirtelo (davvero). Ci provo. Sento che le mie corde vocali stanno per produrre un suono, cerco di portarlo fino alle estremità delle labbra.



    Un suono si spezza nella mia gola.



    So amarti, posso amarti (una mano tra i suoi capelli biondi, a tratti imbiancati). Percorro ogni yoctometro delle sue ciglia (meravigliosamente lunghe), ogni femtometro delle sue unghie (simmetriche, ordinate), ogni nanometro della sua pelle (profumata).



    C’è corrente (la porta si sta aprendo lentamente).



    Sembra che il mondo si sia fermato, adesso, tra queste braccia bianche (il mio sguardo scivola lungo quei buchi sulla pelle). Conto i segni della mia instabilità. Buchi (più sul braccio sinistro), alcuni anche all’altezza della vena cefalica.

    Ricordi di sfiorati fuori vena (azione vasocostrittiva).

    Edemi. Flebiti.



    Ti amo. Vorrei sapertelo dire proprio con la stessa spontaneità in cui riesco a comunicartelo nei miei pensieri (in quei momenti in cui sorridi, guardi altrove).



    Le tue gambe contro le mie.



    Sono come il Sole. Ti giro intorno (o era il contrario? Era il Sole che girava o era la Terra? Inutile). Tutto si ferma. Tutto tace. Ed è qui, tutto il mondo è qui, tra queste mie braccia bianche (piccoli movimenti della testa contro il mio petto).



    Ti amo. Lo sai. Non c’è bisogno che te lo dica (vero?).



    Abbiamo fatto l’amore in una piovosa notte di Giugno (piove sempre). Tutto si è fermato, adesso.



    Ora, proprio ora, ho la cura alla mia instabilità, alle mie oscillazioni che vanno dall’iperattività alla noia (non è la cocaina, non è la morfina).



    Il mondo è fermo, contempla il silenzio nella nostra Baker Street.



    Ti amo. Sei la mia cura. Ti amo.







    Buonanotte, John Watson.





    ***




    Ore 7.28 a.m. Ventidue gradi scarsi all’esterno. Fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?

    Mercoledì, Giugno.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano parallele al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, fischia.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Non sento più alcun fischio.



    Dolore diffuso alle articolazioni (umidità?). No. Aspettato.



    Rumore di passi che si avvicinano. Sembra che tu ti stia trascinando (quelle ciabatte che erano nuove adesso si sono allargate).



    Porta che si apre (rumore, fastidio). Due tazze; una nella mano destra, l’altra nella mano sinistra (le nocche della mano destra sono più rosse, probabile che ti sia scottato involontariamente).



    “Buongiorno. Ti ho fatto il tè”.

    “Buongiorno. Lo vedo”.



    Sorride, guarda altrove (proprio come nei miei pensieri).



    Letto matrimoniale. Troppo grande per una persona sola (dormo sul lato sinistro). Non sono più una persona sola (verificare: ricordarsi di parlare con John della situazione).

    Lenzuola e piumone sul mio lato (il tuo lato è decisamente più ordinato).



    Si siede al mio fianco, mi porge quella tazza di tè che mantiene nella sinistra (bollente).

    Inspira, espira. Inspira. Poi espira di nuovo.

    Soffia nella tazza.

    Aspetta che si raffreddi.



    “Ti amo, Sherlock” (bacio sulla guancia, inaspettato).

    Sorrido (difficoltà nel comunicarti il mio amore). Strana sensazione di inadeguatezza.



    Beviamo. Tutto è tranquillo. Guarda, il mondo ha ripreso a girare (nella caotica Baker Street). Mantengo la tazza con la sinistra. Bevo.



    Fuori piove (il mondo gira).



    “Mi ami, Sherlock?”.

    Occhi (grandi). Supplichevoli (oserei dire). La mia destra sale alla sua spalla, gli sfioro i capelli dietro la nuca. Lo avvicino a me. Gli stampo un bacio sulle labbra (calde per il tè).

    Facile.



    Sorride. Contento io e contento lui (memorizzare questo espediente).



    Il mondo ha ripreso a girare.



    “E’ meglio che mi sbrighi, ho il turno presto in ambulatorio”.

    “Hm”.

    Risposta atona (non andare via, John).

    “Io credo proprio che farò una visita a Molly. Mi aveva detto che aveva delle cose interessanti da mostrarmi riguardo due corpi che sono arrivati ieri all’obitorio”.


    “Ti divertirai” (sorride, occhi bassi).

    “Lo sai che è un’affermazione azzardata”.

    Si alza dal letto, si avvicina alla porta.

    “Ti divertirai di certo più di me. Io dovrò visitare vecchiette ipocondriache che credono di morire nonostante mostrino solo i sintomi di una debole e banale influenza”.

    “Di’ loro che stanno per morire e liberati di questo peso. Inventati una malattia incurabile apposta per loro. Questa sera mangiamo fuori, John”.

    Ride (divertito). Credo che mi voglia dare dell’insensibile (bonariamente). Lo amo. Lo amo infinitamente.

    “Sherlock, comunque mangiamo sempre fuori casa. Detto così sembra che tu mi voglia portare a cena fuori, una sorta di appuntamento galante… dico sul serio!” (continua a ridere).

    Il suo sorriso è meraviglioso.

    La sua mano sulla maniglia della porta, esce. Andrà a prepararsi (ci metterà pochissimo, proprio come qualsiasi uomo dal passato militare).



    Il mondo ha ripreso a girare (eccolo concentrato in quel sorriso dai denti bianchi).



    Il mio pensiero vola sulla tua sagoma avvolta in quel camice bianco (che ti rende così grande agli occhi del mondo, come se fossi un salvatore, come se fossi un dio). Vecchiette che ti chiederanno di auscultare loro il cuore, ormai stanco di vivere ma restio a lasciare questo mondo; madri impaurite che ti chiederanno di osservare quelle macchioline rosse sul viso dei loro piccoli (l’unico vero tesoro nella loro vita); uomini (tutti forti fuori dalla tua stanza) che ti chiederanno di curare loro quella fastidiosa bronchite. Forse qualcuno sta per morire. Forse qualcuno scoprirà di avere qualche terribile male, ma riuscirai a salvarlo diagnosticandogli in tempo i sintomi.

    Come un salvatore, come un dio.



    La porta si apre, un ultimo saluto (quel meraviglioso sorriso).



    La mia mano afferra il cellulare alla mia sinistra, scrive.



    Questa sera. Angelo. -SH

    Me lo immaginavo. In ogni caso puoi ancora urlarlo, ti sento. Sono per le scale. -John Watson

    Torna su. -SH

    Lo farò questa sera quando, finalmente, sarò di nuovo tutto per te -John Watson




    La porta dietro di lui si chiude (forte).

    E il mondo, John Watson, guardalo: ha ripreso a girare.





    ***




    Da Angelo, finestra. Ricordi del nostro primo giorno insieme (conoscenti da poche ore).

    Cosa siamo adesso?

    Ricordi di quel taxi, di quelle corse, di quelle pillole.

    Una coppia. Decisamente dei compagni. Strano. Sensazione di inadeguatezza.

    Cosa siamo stati? Conoscenti, coinquilini, colleghi, amici, migliori amici… adesso compagni. Suona come una parola nuova, appena imparata.



    I suoi occhi nei miei. John Watson è il ritratto dell’ordinarietà (lo guardo incuriosito mentre tenta di propormi le sue frasi idiomatiche da inguaribile romantico). Sorride. Ha i capelli più lunghi del solito (li taglierà in questi giorni). Anche io dovrei tagliare i miei (li spunterò da solo con le forbici della mia padrona di casa).



    “Com’è andata all’obitorio?”.

    “Discretamente”.

    “Cioè?”.

    “Osservazione e deduzione. Dopo pochi minuti i corpi non erano più così interessanti”.

    “Ah, capisco” (annuisce interessato).

    Arrivano alcuni piatti. Noioso. Ho così poca voglia di mangiare (ma so che se non mangerò ora finirò per divorare avanzi e scarti non commestibili nel frigo di casa, di notte, allontanandomi da John per qualche minuto).



    Serata lenta. Sento che sto pendendo dalle sue labbra (come quando la mia mente pendeva da quell’ago sottile). Come la cura. Sei la mia cura.



    Conflittualità.

    Dipendenza da quei sorrisi, da quelle carezze, da quella presenza, ma al contempo inalienabile sensazione di inadeguatezza. Dubbio sui miei sentimenti (è amore? Deve).



    Indefinito sentimento nei tuoi riguardi, John Watson. Difficoltà nel riuscire a esprimerti tutto il mio astratto impulso affettivo nei tuoi confronti. Incedibile sensazione di inidoneità.



    “Sherlock, mi stai ascoltando?”.



    Nella mia mente vedo i miei occhi sparire, la mia bocca risucchiata da un enorme e curioso punto interrogativo (visione fastidiosa, confusione, dolore).





    ***




    Ore 1.44 a.m. Giovedì, Giugno.

    La mia testa sul suo petto. Rifletto. Cerco di comparare le emozioni scatenate da questo contatto con sensazioni già conosciute e catalogate (con lo scopo di comprendere meglio il mio indefinito sentimento nei suoi riguardi).



    Nono piano, corridoio 2, stanza 8: i miei quattro anni; le braccia di mia madre, la mia testa sulla sua spalla (come la mia testa sul tuo petto).

    Decimo piano, corridoio 9, stanza 57: i miei sette anni; le mani di mia madre sulle mie mentre mi guida verso il microscopio (come le mie mani sotto le tue su quella calda erezione).

    Undicesimo piano, corridoio 3, stanza 13: i miei tredici anni; le mani di mia madre che battono forte dopo aver risolto uno dei miei primi casi (come i tuoi complimenti dopo aver esposto una deduzione).

    Dodicesimo piano, corridoio 1, stanza 1: i miei quindici anni; le mani di mia madre che disinfettano delle evidenti ferite sulle tempie, ormai troppo difficili da nascondere (come le tue mentre stringono una fasciatura o ispezionano il mio corpo alla ricerca di fratture da me volutamente nascoste).



    Come mia madre. John Watson come mia madre.

    Non ti chiamerò mamma.

    E’ così strano.

    Vorrei saperti dire ti amo e invece il mio cervello ricollega il mio indefinito sentimento nei tuoi riguardi a mia madre. Perché? Sovrappongo i tuoi capelli (lisci e biondi, a tratti bianchi) a quelli di mia madre (lunghi e ricci, neri come il corvo). Confuso. Mi ricorda i ritratti nella mia casa d’infanzia: signore che non ho mai conosciuto e che spiavano le mie dita curiose che investigavano oggetti d’uso comune.



    Come mia madre.

    No, non finirà così.



    Tredicesimo piano, corridoio 5, stanza 26: i miei diciannove anni. La rottura definiva di quel rapporto. Ricordi di urla, di pianti. Ricordi della mia passività, della mia insensibilità. Ricordi di quel vuoto. Ricordi di valigie. Ricordi di noia. Ricordi di dipendenze. Ricordi di altre siringhe.



    No, non finirà così.



    Non sei come mia madre, John Watson. Devo costruire altre torri nella mia mente, luoghi idonei per conservare (e non dimenticare) questo indefinito sentimento.



    Accettare la diversità di tutto questo. Schematizzarla e dare ad essa un nuovo nome, coniarne uno nuovo a cui l’uomo non ha mai pensato prima.





    Dita (le sue) tra i miei capelli (si muovono, piano).



    Mendelssohn compone nuove sinfonie nella mia mente (mai sentite, diverse da tutto ciò che l’uomo è capace di immaginare).







    Buonanotte, John Watson.





    ***




    Ore 11.43 p.m. Tè?

    Martedì, Agosto.

    No, non è il momento adatto per una tazza di tè.



    Ho perso la concezione dello spazio (non sento più il volume del mio corpo). Mi bruciano il volto quelle lacrime (non mie) sulle guance (le mie).



    Ricompongo lo spazio intorno a me.



    Letto sotto di me. Finestra aperta. Luci spente. John alla mia destra che parla (difficoltà nel seguire le sue parole), che piange (mi piange sul volto). Perché?



    Ritorno a qualche ora fa.



    Lite. Parole forti nei miei riguardi (“non puoi possedermi come se fossi un oggetto”). Parole da cui non ho saputo difendermi in maniera razionale (“Non mi comunichi il tuo amore perché non mi ami, sperimenti su di me come se fossi l’ennesima cavia”). Dolore. Confusione.

    Ricordi di una rabbia che non provavo da anni.

    Le mie mani su oggetti che dopo qualche secondo erano al suolo.

    Ricordi del suo volto (difficoltà nel capire la sua espressione).

    Le mie mani che si aggrappano ai suoi indumenti, il mio corpo che crolla sul suo (il volto che affonda nel suo stomaco mentre scivolo sempre più in basso).

    Disperazione.

    Forte pressione su una parte indefinita del mio corpo (spinta).

    Le mie mani tra i miei capelli, occhi che fissano un punto indefinito della stanza.

    Rumore di una porta che sbatte. Rumore di qualcosa che si frantuma nel mio corpo.

    Resto fermo in quella posizione per un tempo indefinito. Riprendo a respirare in maniera regolare. Mi guardo intorno e ci sono solo oggetti rotti che qui giù mi fanno compagnia (Billy ad una distanza indefinita).

    Improvvisa pressione sulle mie spalle (ritorno nel mondo). La signora Hudson che mi stringe. Sono nella (sua) cucina (da quanto tempo?).

    Parole che entrano ed escono dal mio corpo. Vuoto e confusione al contempo. Voglia di zittire le urla di tutti i ricordi nel mio palazzo mentale (anche Mendelssohn mi suona nella testa con un pianoforte scordato e un violino spezzato).



    La mia mente si solleva dai ricordi, ritorna svelta al presente. Siamo di nuovo nello stesso letto (così vicini, così stretti l’uno contro l’altro). Sorrido al pensiero di una riconciliazione che non ricordo. Improvvisa sensazione di freddo sulle guance (ritorno alle sue lacrime). Cerco di ricomporre le sue parole (vedo la sua bocca muoversi, le sue palpebre serrarsi sugli occhi, le sue mani stringersi al mio petto). Mi giungono echi lontane (“abbiamo davvero varcato quel limite”), frasi che non riesco a collegare (“ho anche parlato con Mary dell’accaduto”), frasi che però sento pesanti e difficili da mandare giù (“come riuscirò a guardarti in faccia come facevo prima?”). Voglia di ricominciare (“nella vita reale non c’è tempo di seconde possibilità, Sherlock. E sto male proprio perché so che dovremmo costruire da zero quello che abbiamo appena distrutto”). Sento la difficoltà nel pronunciare quelle parole così aspre (le sue lacrime amare e salate sul mio volto).



    Voglio piangere anche io con te, John. Voglio urlarti che ti amo. Voglio cancellare questo giorno.

    Sarà tutto inutile.

    Voglia di ritornare nell’oblio.



    Sento che parla di noi, poi parla di Mary (“Mary è un’amica; la nostra relazione è finita ma siamo riusciti a salvare il salvabile. Ma io con Mary non ho mai avuto il rapporto che avevo con te, io con Mary non ci abitavo, io con Mary non ci lavoravo. Mary è fuori dalla mia vita, tu invece ci sei troppo dentro sia per tagliare i ponti sia per ricostruirli").



    Come mia madre.



    Tredicesimo piano, corridoio 5, stanza 26: i miei diciannove anni. La rottura definiva di quel rapporto. Ricordi di urla, di pianti. Ricordi della mia passività, della mia insensibilità. Ricordi di quel vuoto. Ricordi di valigie. Ricordi di noia. Ricordi di dipendenze. Ricordi di altre siringhe.



    E domani sarà il tempo di un altro ago (sento già la morfina che lenta arriva al cervello). E domani sarà il tempo giusto (per l’oblio). Sì, lo sarà domani.

    Adesso resto ancora tra le tue braccia, sotto le tue lacrime.

    Aspetto domani.



    Domani è un altro giorno (il mondo continuerà a girare come prima, John Watson?).





    ***




    Ore 5.27 a.m. Caffè?

    Venerdì, Gennaio.

    Non ne voglio.



    Compongo musica (triste, a detta di John). Pensiero di Irene Adler.



    Ho una pulce nell’orecchio (la Dalia Nera?).



    Non c’è tempo per la Dalia Nera quando qualcuno si dimostra così interessante (La Donna).



    Quella pulce continua a torturarmi (Mendelssohn mi buca il cervello con l’archetto del violino). Cosa vuoi? Penso. Ti concedo un paio di secondi per espormi i tuoi problemi. La mia mente percorre veloce scale di pietra, oltrepassa celere grandi androni, rapida esplora torri e corridoi. Ho capito. Vuoi parlarmi del mio dottore (lo è sempre stato e sempre lo sarà).



    E’ tornato con Mary (dopo essere stato lasciato da quella persona insignificante che era al suo fianco nel periodo natalizio). Mary sostiene (o almeno è ciò che lascia intendere dalle sue frequenti e fastidiose lettere d’amore) che John sia realmente la sua dolce metà perché, qualunque siano i problemi che avvengono o avverranno, loro due torneranno sempre insieme. Dopo Sarah Sawyer (il suo nome lo ricordo bene perché, quando cerco John all’ambulatorio, sono sempre costretto a passare sotto il suo consenso) ci fu proprio lei, Mary Morstan (il suo nome lo ricordo bene perché è stata una cliente), poi ci fui io (l’unico uomo tra tutte le donne che hai avuto nella tua vita, vero John?), successivamente Mary (di nuovo), poi quella donna insignificante (e superficiale), e infine ancora Mary.



    Mi sento emotivamente distrutto.



    Il mio indefinito sentimento è sempre stato amore, e lo so bene perché lo è tutt’ora. D’altro canto la difficoltà nel comunicarglielo non ha fatto altro che scavare un apparente vuoto tra me e lui (le vere tessere che si incastrano di quel puzzle enorme che è la nostra vita). Sentimento di inadeguatezza inalienabile (circa sei mesi fa, anche più), instancabile presenza del timore di dividerci (è successo), di soffrire (è successo).



    Filofobia. [12] L’alessitimia non ha aiutato (sono davvero alessitimico?).



    Suono (musica triste). E’ per te, non per La Donna.



    Mendelssohn estrae lentamente l’archetto dall’emisfero sinistro (sento che ha lasciato un buco enorme).



    Accarezzo con l’archetto il violino con estrema delicatezza (per te, John). Immagino il suo corpo che si gira e che si rigira nel suo letto al piano di sopra (supplicando che io la smetta).



    Sto suonando qualcosa di nuovo solo per te, John. E’ musica triste (domanda o affermazione?).

    E’ per te.



    Buonanotte, John Watson.





    ***




    Distruzione emotiva.

    La mia mente (oh sì, mi sembra di vederla) viene tirata da una parte da Irene Adler, dall’altra da John Watson.



    Sto chiudendo le stanze (nel mio palazzo mentale) che contengono il ricordo di quell’esperienza (di cui sento la difficoltà nel descriverla verbalmente anche a me stesso). Concluderò questo caso e urlerò a John di restituirmi la scatola, la mia scatola, la mia cura (non è più dove l’avevo lasciata l’ultima volta).



    Immagino i posti dove abbia potuto nasconderla.



    Un uomo come John (ordinario) la nasconderebbe in posti facili da tenere d’occhio quotidianamente, magari luoghi dove conserva oggetti di uso giornaliero.



    L’armadio. Il cassetto della biancheria. Il comodino. Mi azzardo a dire: dietro uno dei suoi libri, al piano di sopra (mossa forse troppo scaltra e meditata per un uomo pratico e d’azione come John).



    Io avrei aperto la scatola e nascosto gli oggetti in luoghi separati. Sarebbe stato più difficile per l’interessato trovare tutti gli oggetti. Inoltre non li avrei nascosti, li avrei messi vicino a oggetti simili o di simile utilizzo (la soluzione salina tra i barattoli di vetro nella dispensa in cucina). Luoghi dove tali oggetti passano inosservati all’occhio di chi guarda ma non osserva (sento già il cervello di John suggerire di ignorare i due flaconcini perché non è ciò che sta cercando in quel momento).



    Chiuderò il caso (come sto chiudendo quelle stanze nel mio palazzo mentale) e ritornerò alla cocaina.



    E adesso (mentre John mi cammina dietro farfugliando cose che non reputo importanti) a distrarmi è solo la neve che vuole sciogliersi sui vetri del 221b.



     
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    Ahaha sono una persona orribile

    CITAZIONE
    Mi stringe forte (il suo piede destro tra i miei).

    Avevo letto "il suo piedo"

    574500_4571494615399_143528760_n

    CITAZIONE
    Mi alzo dal letto, allungo le gambe (dolore alle caviglie?). Il mio corpo si spinge in avanti. Blocco (ostacolo?). Una mano mi tira indietro. Mi volto. Continua a tirare (fastidio). Il mio corpo ricade sul letto (mi posiziono frontalmente al suo corpo, la gamba destra sotto di me)

    Mi avvicino a lui con il busto. Mi abbraccia (forte, fastidio, confusione).

    Contatto fisico (più irruente di prima).

    Le sue mani dietro le mie spalle, le sue labbra sulla clavicola (la mia) sinistra.

    Per descrivere quello che ho provato farò apposta una nuova gif:

    CDUMPfig

    CITAZIONE
    Si alza. I piedi sul pavimento (passi pesanti). La mano sul pomello della porta (gira verso destra, apre, esce).

    :alone:

    CITAZIONE
    E’ il momento di tornare alla cocaina.

    Mi sembra giusto.

    CITAZIONE
    Mi spingo in avanti, cerco la sua bocca. Lo bacio. E’ perfetto così (dentifricio). Lo bacio (di nuovo). Le sue labbra, la sua lingua, la mia mano dietro la sua nuca, il peso del suo busto contro il mio corpo (esaltazione maggiore di quella provocata dalla cocaina?).



    La sua testa sul mio petto.



    Confusione.



    Ti amo.

    <3 <4 <5 [yama cit.]





    Sono arrivata a metà.
     
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  3. ~ Ritux
     
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    E niente, io non capisco perchè la seconda parte non me la fa pubblicare. Scrivo un commento normale e tutto va bene, invio quello e cade la connessione caricandomi una pagina bianca. Why?

    Comunque ho lollato di brutto con il fatto del piedo, asd.

    CITAZIONE
    Per descrivere quello che ho provato farò apposta una nuova gif

    Addirittura? :c
    Nella seconda parte (CHE DEVO PUBBLICARE, GLWEUFHWPEFQWEARH) io ci ho pianto. E sono l'autrice.
    Ma probabilmente mi vanto, asd.


    CITAZIONE
    CITAZIONE
    è il momento di tornare alla cocaina.

    Mi sembra giusto.

    :gni:

    CITAZIONE
    <3 <4 <5 [yama cit.]

    :lol:

    CITAZIONE
    Sono arrivata a metà.

    Ti amo, lo sai? :crysmile:
     
    .
  4.  
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    Appena hai la possibilità di usare un'altra linea Internet prova a inviarla con quella.
    Anche a me in passato capitava con i testi troppo lunghi. Oppure prova a spezzarlo :mm: Se invii 2 post ravvicinati te li unisce.

    CITAZIONE
    Ti amo, lo sai?

    tumblr_mbgcgg7ebX1riqizno1_250
     
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  5. ~ Ritux
     
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    Parte 2



    ***




    “I miei complimenti”.



    “No”.



    “Come, scusi?”.



    Scintilla.

    Ed eccola lì mentre, piano, illumina le antiche stanze dell’edificio che ho eretto nella mia mente. Riesco a vederla mentre illumina i corridoi sfidando le leggi della fisica.



    Improvviso momento di stupore: Mycroft mi osserva incuriosito, La Donna si irrigidisce di scatto.



    “Ci era andata vicino, ma no” (il mio corpo come un vettore). “Si è lasciata trascinare, il gioco era troppo elaborato. Si stava divertendo troppo” (l’illuminazione, oh sì, quella sì che è paragonabile alla droga).



    “Per me non esiste la parola troppo” (i miei occhi che osservano il corpo di Irene Adler indietreggiare mentre gioca le sue ultime carte).



    “Godersi il brivido della caccia va bene” (vedo i suoi muscoli irrigidirsi), “desiderare la distrazione del gioco lo posso capire” (cerca di mantenere il contatto visivo con difficoltà), “ma i sentimenti? I sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde” (deglutisce mentre abbozzo una smorfia).



    “Sentimenti?” (ha bisogno di più informazioni, trova difficile scegliere la tattica più adatta senza sapere cosa io realmente so riguardo questa situazione). “Di cosa sta parlando?”



    “Di lei”.



    “Oh santo cielo” (ha scelto la tattica della beffa). “Ma povero uomo…” (riesco a vedere come acquista sempre più sicurezza in ogni sua parola). “Davvero credeva che fossi interessata a lei? Perché? Perché lei è il grande Sherlock Holmes, il detective con il cappello buffo?” (mi osserva con superiorità, ma teme la mia risposta).



    “No”.



    Mi avvicino. L’ultima volta che sono stato così vicino ad una persona risale, ormai, a parecchi mesi fa. Mentre le mie dita scivolano sul suo polso (per confermare le mie deduzioni) ecco che quella scintilla apre le porte di quelle stanze che avevo ormai chiuso. Ricordi di momenti di irrazionalità (ricordati: feniletilamine).



    Le mie labbra a pochi centimetri dal suo padiglione auricolare. Riesco a sentire le sue gocce di sudore scendere lente lungo le tempie.



    Il polso. Lo sento (lo riconosco).



    “Perché le ho preso il polso” (il polso diventa via via più accelerato sotto le mie dita).



    Scorrono nella mia mente le immagini della sera prima (una sentimentale partita a scacchi), ma adesso, proprio adesso, sembra che si stiano sovrapponendo ad essi ricordi provenienti da particolari stanze del mio palazzo mentale.



    Il volto di Irene Adler si alza verso il mio (occhi grandi, sopracciglia rivolte verso l’alto).



    “Accelerato” (il polso), “le sue pupille dilatate…” (momento di esitazione).



    Mi godo gli istanti in cui lascio che La Donna crolli. Lo farà. E’ questione di minuti.



    Prendo quel cellulare sulla scrivania, spingo un suono verso le labbra.

    Interruzione.

    La mia mente si sofferma sul suo volto, così simile a quello del mio dottore nei momenti, in quei momenti, in cui non sono stato il suo investigatore (“Fantastico!”). La mia mente sovrappone le sopracciglia della Adler rivolte verso l’alto a quelle labbra di John rivolte verso il basso.

    Per un attimo mi sembra di risentire la sua rabbia sulla mia pelle.



    “Immagino che per Watson l’amore sia un mistero per me, ma la chimica è molto semplice e davvero distruttiva” (mentre cammino ripercorro quei tracciati di lacrime, non mie, sul mio viso).

    Non mi fermo, vado avanti. Mi volto.

    “Quando ci siamo conosciuti ha detto che il travestimento è un autoritratto; il codice della cassaforte erano le sue misure; questo, invece, è molto più intimo: è il suo cuore, non dovrebbe permettere che guidi la sua testa” (scrivo le prime lettere su quel cellulare).



    Gli angoli della sua bocca si sono adesso piegati verso il basso.



    “Avrebbe potuto scegliere numeri a caso e andarsene con tutti i suoi segreti” (continuo a bruciare i tasti di quel cellulare con rabbia e rimorso).



    Spezzare il cuore (in questo momento riesco a vedere le mie mani nel suo petto mentre stringo, stringo forte per la rabbia, per il rancore, per il rimorso, per i rimpianti). Le sto spezzando il cuore, le sto distruggendo la mente, sto gettando la sua vita per l’ebrezza della vittoria, per l’esaltazione della mia mente.



    “Ma non ha saputo resistere, vero?” (sorrido).



    Riesco a sentire la rabbia nelle vene.



    “Ho sempre sostenuto che l’amore fosse uno svantaggio pericoloso” (l’irrazionalità di quei baci). “Grazie per avermene dato prova” (spingo ancora su quei tasti).



    Rabbia.

    Non ho saputo amarti, John.

    L’amore è così pericoloso, così irrazionale, così distruttivo (e conosco la sua chimica sulla mia pelle, nella mia mente, nel mio corpo).

    Rabbia, ancora rabbia.



    Scrivo le ultime lettere quando le sue mani si posano sulle mie (con vigore). Sembra stia per piangere (quanto piangesti quella sera, John?).



    “Tutto quello che ho detto non è reale. Stavo solo facendo il mio gioco” (le trema la voce).



    Sento che la mia rabbia è arrivata al culmine. Desiderio di lasciare che crolli (una sorta di vendetta, una sorta di sfogo). Desiderio di godere del suo volto alla fine di questo caso.



    “Lo so” (una smorfia di superbia). “E questa è la sua sconfitta” (alzo il cellulare per mostrarle quanto sono stato più avanti di lei).



    Lacrime (come quelle di John).

    Bruciano, anche se non sono sul mio viso.



    Deglutisco (dura così poco la soddisfazione di aver stroncato una mente brillante?).



    Non riesco a godere del suo volto (piange). Provo una insolita sensazione di dolore.



    Disturbo.

    Con lei (lo sento) ho fatto di peggio: ho distrutto la sua mente, spezzato il suo cuore e spento le luci della sua vita. Durerà poco, la uccideranno (fino a quando ci sarò io, John non vedrà nemmeno la sagoma della morte).



    La rabbia scivola via (ormai il presente e il passato si sovrappone creando nuove immagini).



    Non riesco gioire, non mi esalto.

    La mia rabbia scema in sentimento indefinito simile alla delusione, ma anche molto vicino alla rassegnazione e alla compassione. Come lo definiscono gli altri?

    Confuso.



    “Prendilo, Mycroft. Spero che il contenuto rimedi agli inconvenienti che ho causato questa sera”.



    (“Ne sono certo”).



    “E’ meglio arrestarla, se la lasci andare non sopravvivrà senza protezione”. Tentativo di sopprimere il mio indefinito sentimento.



    “Si aspetta da me che io la implori?!” (alza la voce, accenna qualche passo avanti verso di me).



    Mi fermo.



    “Sì”. Secondo tentativo di sopprimere il mio indefinito sentimento.



    “La prego” (la sua voce si blocca di scatto). “Ha ragione” (mi volto). “Non sopravvivrò sei mesi”.



    Nei suoi occhi tutta la storia di John Watson e me.

    Confuso.



    “Mi dispiace per la cena”.



    Il mio corpo fuori dalla mia stanza (la mia mente ricostruisce le finestre rotte nelle stanze dove albergano i ricordi che riguardano quella relazione tra me e lui).





    Come un vettore la cui origine parte dalla testa (impegnata a ricostruire pezzi rotti e impossibili da riaggiustare) e di cui l’estremo libero è il cuore (spezzato, stremato, sofferente).





    ***




    Un modo per espiare le mie colpe.

    La pioggia batte forte sugli infissi di tutta Londra (un sorriso sulle mie labbra quando scorro quell’ultimo messaggio).



    Addio Signor Holmes.



    Quasi mi sembra di sentire John mentre inizia i suoi discorsi sul destino, sull’assenza quasi totale della casualità (irrazionale, e oserei dire anche romantico); La Donna (un bel caso), utile (per lasciare che rifletta sui miei comportamenti).



    Le persone; io le persone le ho sempre usate, possedute, buttate (fastidio per alcune gocce d’acqua sulle finestre).



    John Watson è importante per me (tanto quanto lo sono io per La Donna).



    Non ho saputo trattare John come una persona (esattamente come non ho saputo trattare La Donna come una persona).



    Oggetti.



    Soddisfazione psicologica (per me) da parte di entrambi.



    Ho distrutto due menti, due cuori (per poi lasciare che mi facessi compagnia con le droghe).



    Un modo, il mio, di salvare ciò che poteva ancora essere salvato (per dire a me stesso che salvare quel rapporto non era impossibile).



    Ritorno a poco tempo fa.

    Le sue mani che tremano mentre scrivono l’ultimo messaggio. I suoi occhi, serrati ormai, che si rifiutano di guardare ciò che li aspettava.



    Un rischio.



    (“Quando ti dico “corri”… corri!”).



    L’avessi fatto con te, John, forse oggi potrei continuare a stringerti (come se fossi una persona, non un oggetto da possedere).



    Mi lascio sfuggire un ultimo sorriso.

    Un apparente barlume di speranza, l’idea di un tentativo (tutto nuovo, diverso).



    Nella mia mente John ha appena finito di parlare del destino (finalmente).



    Io ho espiato una colpa, tu hai acceso una speranza.



    La Donna, l’unica donna.





    ***




    Gocce di pioggia sui vetri del 221b. Soggiorno. Poltrona rivolta verso il camino. Tazza (caffè) nella mano destra. John arriva dalla cucina (capelli bagnati).



    “Quindi hai deciso che le chiederai di sposarti” (continuo a osservare il fuoco).



    Momento di silenzio (sette secondi).

    “Eh, sì” (si siede sulla poltrona). “Ma non ora, no” (si mette le mani nei capelli).



    Lascio che passi qualche secondo prima di iniziare di nuovo a parlare (silenzio).

    “Perché?” (bevo).



    “Non vorrei fare la fine di mia sorella…” (ride). “Sai, un matrimonio prevede impegno, costanza, determinazione… non sono ancora completamente sicuro di avere la forza necessaria per fare questa scelta, per cambiare di punto in bianco la mia vita, e-”

    “I casi. Ricordati dei casi”.

    Lo interrompo bruscamente.

    Mi guarda, apre la bocca (vuole dirmi qualcosa).



    “Se sono i casi la tua preoccupazione, comunque, sappi che non potrei mai smettere di lavorare con te” (ha optato per una frase diversa da quella che voleva dirmi in precedenza, suppongo per evitare di creare ulteriori polemiche).



    Bevo.



    Lo guardo, non parla. Non vuole. Non importa.

    “Ridurresti, di conseguenza, ciò che c’è tra te e me ad un mero rapporto lavorativo?”.



    Mi guarda, per pochi secondi. Poi si alza, fa avanti e indietro, si volta verso la cucina, poi ritorna (impiega circa 18 secondi).



    “Cosa credi che ci sia tra me e te? O almeno, cosa credi che ci sia ancora?!” (alza la voce, allarga le braccia, si sporge in avanti).



    Bevo (ultimi sorsi).



    Decido di mia spontanea volontà di non rispondere alle sue domande (piuttosto preferisco scavare nel mio palazzo mentale per risolvere il quesito da lui posto).



    Rimando (osservo John allontanarsi dalla stanza).



    Afferro il giornale, leggo la testata in prima pagina (“Arrestato l’assassino della tredicenne Ann McGinty”). Sorrido. Continuo a leggere alcune frasi all’interno dell’articolo (“L’ispettore Gregory Lestrade di Scotland Yard…”). Che caso terribilmente semplice (“Un caso che ha stremato il DI Lestrade e tutti i suoi collaboratori”). D’altro canto l’assassino si è comportato come hanno fatto tanti prima di lui (“Birdy Edwards, l’assassino della tredicenne, risponderà in tribunale del caso che ha coinvolto tutte le forze di Scotland Yard in questi ultimi mesi”).



    Soddisfazione.



    Alzo gli occhi, John non è più nella stanza. Ignoro la cosa, continuo a leggere il giornale (scontri a Tottenham, l’articolo si ricollega ai disordini di Brixton. Noioso. Un articolo sul discorso di Obama riguardo crisi. Noioso. Una vittoria dell’Arsenal. Noioso).



    John (dov’è?).



    Lascio il giornale sul pavimento, mi alzo. Percorro il soggiorno e arrivo in cucina (segni di scarpe sul pavimento, numero 37, punta arrotondata e tacco quadrato; non è ciò che cerco). Mi spingo verso il corridoio, guardo nella mia stanza (ho lasciato la finestra aperta e l’acqua è entrata in casa), poi guardo in bagno (un asciugamano abbandonato sul pavimento). Attraverso di nuovo il corridoio, la cucina, il soggiorno. Mi fermo. Salgo al piano di sopra (il terzo e il settimo scalino emettono rumori particolarmente fastidiosi). Porta aperta. Entro. Non c’è nessuno.



    “Signora Hudson!” (urlo).



    Scendo le scale in fretta, arrivo al piano terra, svolto a sinistra, entro nella cucina della mia padrona di casa.



    “Caro, che ci fai qui?” (mi guarda mentre continua a cucinare).



    “John. Dov’è?” (mi avvino a lei lentamente).



    “E’ uscito, mi ha anche salutata. Ha detto che non sarebbe tornato per cena e, forse, che sarebbe rimasto anche la notte fuori” (si sfrega le mani). “Suppongo si veda con quella donna” (annuisce). “E’ una brava ragazza ma so che non sa cucinare”.



    “Mary Morstan” (mi guardo le scarpe).



    “Proprio lei. E’ una brava persona: molto educata, di notevole personalità” (afferra un barattolo dallo scaffale dietro di me).



    John è uscito.

    Non l’ho nemmeno sentito andare via (eppure, fino a poco prima di iniziare a leggere l’articolo sul caso di Ann McGinty, i miei sensi erano focalizzati sui movimenti operati da John).



    Penso: ho ignorato John per ricavare della misera soddisfazione da un articolo del Sun? (Ricordarsi di verificare entro la fine della giornata).



    La mia mano destra sale alla fronte, abbasso il viso. Il mio volto accenna uno stanco sorriso.



    Sto perdendo il controllo della situazione.



    Sento che mi sta sfuggendo dalle mani (come una cosa, come un oggetto personale).





    Sento che non posso fare nulla per impedirlo (irrazionale, irrazionale, irrazionale).





    ***




    Aprile, 16. Devo cambiare le pile dell’orologio in cucina.

    John Watson è appena tornato.

    Lo farò dopo.

    1.45 p.m.



    “Hai mangiato, Sherlock?”.

    Entra in cucina, sorride. Ha delle buste della spesa sia nella mano destra che nella mano sinistra.

    “Io sono passato al supermercato, ho fatto un po’ di spesa” (sorride).

    Mi perdo in quel mosaico di rughe sul suo viso.

    “Bravo, John” (annuisco).

    Mi guarda, sorride (ancora).



    Potremmo litigare altre mille volte, sono certo che lui continuerà a sorridermi (in quel modo così ingenuo, così amichevole, così ordinario, così estasiante, così dolce).



    “Hai comprato anche qualcosa da mangiare al momento? Senza cucinare, intendo” (conosco già la risposta).



    Lui lo sa (che conosco già la risposta).



    Gioca al mio gioco. Sorride e mi parla.



    “Per la strada ho preso qualcosa Take-Away” (alza una delle buste).



    Annuisco.



    “Se Greg vedesse questa scena stenterebbe a credere ai suoi occhi” (ride).



    Mi fermo (contemporaneamente più domande nella mia testa).



    “Greg?”.

    “Lestrade” (annuisce).

    “Stenterebbe a credere ai suoi occhi?”.

    “Al fatto che anche tu mangi” (annuisce ancora).



    Mi meraviglio, talvolta, di come la gente non mi reputi umano.



    “La fame è una condizione fisiologica, mi chiedo come sia possibile pensare che io non senta il bisogno di mangiare”.



    John mi porge un piatto di plastica con del pesce fritto e delle patatine (odio per questo tipo di cibo).



    “Mangia. Questa robaccia in altre situazioni ti farebbe male, ma prima che inizi un nuovo caso preferisco che tu ti nutra” (le sue mani sul bordo del tavolo, il peso del suo corpo sugli arti). “Non vorrei che tu morissi di cachessia”.



    “Ti ho detto che sento lo stimolo della fame”.



    I miei occhi cadono sul piatto mentre la sua mano affonda nei miei capelli (come le mani di mia madre quando ero piccolo).



    Sensazione di sicurezza. Fiducia. John Watson.






    ***


    “Te ne devo una” (sussurro la frase con un filo di voce, batto le dita contro il microscopio).



    Torno al mio lavoro. I miei occhi si staccano dall’oculare. Penso.



    “Molecola di glicerolo” (sbuffo) “Che cosa significa?!”. Penso (più intensamente).



    Ritorno al microscopio sperando di trovare la soluzione in questo secondo tentativo.



    “Cosa volevi dire prima?”



    Momentaneamente focalizzo la mia attenzione sulla voce di Molly (inutile). La mia mente è ora rapita da John che mi passa davanti (passo svelto). Sensazione piacevole (esplosione emotiva). Ogni centimetro del mio corpo gli urla di voltarsi, di incrociare il mio sguardo anche solo per pochi secondi.



    Non lo fa.

    Mi passa davanti (passo svelto) per poi sparire dall’altro lato della stanza.



    Implosione emotiva.



    “Hai detto: “Te ne devo una”…” (lo sguardo di Molly cerca il mio). “Lo borbottavi mentre lavoravi”.

    “Niente, è una cosa mia”.



    Molly tace. Con la coda dell’occhio osservo i suoi movimenti (fa qualcosa di inutile con le mani, finge di lavorare mentre trova le parole per rispondermi).



    “Tu sei come mio padre…” (cerco di decifrare il suo tono di voce). “E’ morto” (si ferma) “oh, scusa…”



    “Molly, smetti di fare conversazione, non è affatto il tuo campo” (tentativo di zittirla).



    Le sue parole mi distraggono. Trovo difficile ritrovare la concentrazione, adesso.



    Sento che Molly balbetta qualcosa (tornerà a parlare).



    “Negli ultimi giorni di vita lui era sempre allegro e ben disposto, eccetto quando era da solo”.



    Continuo a lavorare (cerco di ignorare le sue parole).



    “L’ho visto una volta…” (il suo tono di voce è diventato più scuro, più piatto). “Era… triste”.



    “Molly!” (un altro tentativo di zittirla).



    “Tu sei triste quando pensi che lui non ti veda”.



    Il mio sguardo, quasi automaticamente, cade sulla figura di John. Lavora su qualcosa (non me ne ha parlato ancora) con estremo impegno. Mosaico di rughe sul suo volto.

    Desiderio incontrollabile di essere abbracciato da lui (ancora una volta).



    Mentre lo guardo mi ritornano in mente le ultime parole di Molly. Mi volto (piano) e la guardo con attenzione (non l’avevo mai guardata così prima d’ora). Ha gli occhi un po’ lucidi.



    “Stai bene?” (Lei continua la frase prima che io riesca a rispondere). “Non dire di sì e basta perché io so che vuol dire essere triste quando pensi che nessuno ti veda”.



    Cos’è questa? Una critica? Un consiglio? Confuso. La mia mente disegna tutto il dolore che le ho provocato in questi anni non curandomi di lei (mi rimanda al pensiero di perdere John per sempre).



    “Ma tu puoi vedermi”.

    “Io non conto”.



    I miei occhi affondano nei suoi. Strana sensazione sotto la pelle.



    “Quello che dico è che se c’è qualcosa, qualcosa di cui hai bisogno, qualunque cosa, puoi avere me!” (Sorride, ma poi si ferma bruscamente ripercorrendo le sue parole). “No, io… voglio dire…” (guarda altrove) “voglio dire che se hai bisogno di qualcosa, insomma…” (si volta) “va bene, ecco” (concentra il suo sguardo sul pavimento).



    Una dimostrazione di amicizia?



    “Ma non…” (le mie palpebre sia abbassano e si alzano ripetutamente) “non capisco cosa mai potrei volere da te” (il mio sguardo in un punto indefinito della stanza).



    “Niente” (delusione nel suo tono di voce? Verificare). “Non lo so…” (alza le spalle). “Ma forse potresti dire “grazie”, almeno” (accenna dei movimenti con la testa).



    Confuso (difficoltà nel comprendere queste regole sociali). Perché (ringraziare)? Temo di non comprendere il rapporto causa-effetto. Mentre penso, tuttavia, sento il bisogno spontaneo di emettere quel suono che mi si spezza in gola.



    “Grazie”.



    Molly mi cammina dietro. Guazzabuglio di pensieri nella mia testa (difficoltà nel riordinarli secondo una logica precisa).



    “Io vado a prendere delle patatine, tu vuoi qualcosa? Ok, la risposta è no” (mi guarda).

    “Beh, magari invece…”.

    “So che dici di no”.



    La porta sbatte dietro di lei mentre sotto la pelle, nelle vene, sento di essere stato letto come un libro aperto. I miei occhi ricadono su di lui (percorro i tracciati delle sue espressioni).

    Sciolgo la mia fisicità nel pensiero di lui (e me).



    “Sherlock…” (la voce di John mi richiama alla realtà).



    Istintivamente lascio che i miei occhi affondino di nuovo nel microscopio (timore di essere scoperto mentre lo guardavo). Gli rispondo con suoni gutturali che si disintegrano in gola.



    I miei occhi di nuovo su di lui mentre mi si avvicina.



    “Questa busta che era nel baule… ne ho una uguale” (si muove verso il capospalla che aveva lasciato sul tavolo di fronte a me).

    “Cosa?!”

    Cerco di ritornare al mio lavoro (difficoltà).

    “Era davanti casa nostra” (fruga nelle tasche). “L’ho trovata oggi” (mi si avvicina sussurrando qualcosa). “Sì, guarda qui, esattamente lo stesso sigillo”.



    Le mie mani aprono la busta, ne scoprono il contenuto.

    “Briciole di pane” (lascio che dalle mie dita ricadano nella busta).

    “Era davanti alla porta”.

    “Una pista con le briciole, una copia rilegata delle fiabe dei Grimm; due bambini condotti nella foresta dal padre spietato lasciano una pista di briciole…”

    “E’ Hansel e Gretel!” (Il suo tono di voce è particolarmente acuto). “Ma quale rapitore lascerebbe degli indizi…?” (Bravo John, mi piaci quando poni le domande giuste).

    “Uno che ama compiacersi, che gioca con le persone” (la mia mente si focalizza su Moriarty). “Quando era a casa nostra ha usato queste parole: “In tutte le fiabe c’è bisogno di un buon vecchio cattivo”.



    Illuminazione (ed eccola di nuovo mentre, veloce, mi scorre nelle vene come se fosse la migliore sostanza stupefacente mai sintetizzata).



    “La quinta sostanza fa parte della fiaba” (John si sporge a guardare il mio lavoro). “La casa della strega!”



    “Cosa…?” (John non riesce a seguire il filo dei miei pensieri).



    “La molecola di glicerolo!” (Continua a guardarmi incuriosito).



    “PGPR!” (Mi alzo, sento l’apice del piacere mentale; eccolo come il flash, come l’orgasmo).

    “Che cos’è?”.

    “Serve per fare la cioccolata!”.



    Il mio corpo esce spedito dal laboratorio. Mentre percorro i corridoi del Bart’s mi sento carico di eccitazione (desiderio di risolvere il caso in fretta per sentire altri complimenti dalla bocca del mio dottore).



    John Watson, il mio (personalissimo) portatore di luce.





    ***




    <span style="font-size: 14px;"><span style="font-family: Georgia,serif;">“Telecamere, ci stanno osservando”.

    (Tensione, rabbia, agitazione, paura).



    “Cosa?! Telecamere? Qui?!” (paura e agitazione anche nel tono di voce della signora Hudson). “Ma sono in camicia da notte!”.



    Non la guardo nemmeno (ma il mio udito mi suggerisce che è scesa al piano di sotto). Le mie mani sul teschio (Billy); con la destra lo mantengo fermo, con la sinistra cerco all’interno delle orbite.



    Niente.



    Scivolo verso gli oggetti al suo fianco (lo specchio, la bacheca, i fogli, il fermacarte). Irrilevanti.



    Cerco di arrivare ai libri che si trovano nella parte più alta della libreria (salgo sul tavolino, sulla poltrona). Il mio udito segnala suoni per le scale già conosciuti. Sposto alcuni tomi della vecchia enciclopedia rilegata (spingo a destra, a sinistra, ora lo faccio scivolare in fondo).



    Trovata.



    Cerco di staccarla dal supporto (è una telecamera con collegamento wi-fi, ovviamente). Il mio udito mi fa notare che i suoni sono ormai vicini. Momentaneamente focalizzo la mia attenzione su quel rumore.



    “No, ispettore”.



    “Cosa?”.



    Sono riuscito a sganciare la piccola telecamera dal suo supporto. I miei piedi nuovamente sul pavimento. Ritorno alla presenza di Lestrade nella stanza.



    “La risposta è no”.



    “Ma non sai la domanda!”.

    Il tono di voce di Lestrade appare quasi di rimprovero.



    “Vuoi portarmi in centrale, ti risparmio di chiedermelo”.



    Focalizzo la mia concentrazione sulle parole da usare con l’ispettore. Lestrade è ora una pedina di Moriarty.



    “L’urlo?” (Il mio tono di voce appare sottilmente derisorio).



    “Sì” (fatica nel pronunciare quella sillaba).



    “Chi è stato, Donovan? Ci scommetto. Sono in un qualche modo il responsabile del rapimento? Oh, Moriarty è astuto!” .



    I miei occhi in quelli di John (timore?), ora in quelli di Lestrade (timore?).



    “Ti ha messo questo dubbio nella testa, un piccolo tarlo; ma bisogna essere forti per resistere. Non puoi uccidere un idea, non quando ormai ha preso il suo posto…” (il mio dito si dirige verso la sua fronte) “…qui”.



    Mi allontano da loro (da John e da Lestrade) per sedermi di nuovo al mio posto, dinnanzi al computer (lavorare sulla telecamera, subito, prima del prossimo definitivo impedimento).



    “Vuoi venire?” (Lestrade ha il volto contrito).



    “Una fotografia, la sua prossima mossa” (non lascio ai due il tempo di controbattere). “E’ il gioco di Moriarty: prima l’urlo, poi la foto di me che vengo interrogato. Vuole distruggermi pezzo dopo pezzo”.



    Osservo la telecamera ancora una volta prima di iniziare il mio lavoro (una lotta contro il tempo, quel poco di tempo che ancora mi rimane).



    “E’ un gioco, Lestrade, ed io non voglio giocare” (i miei occhi bruciano al contatto con l’eccessiva luminosità dello schermo). “Salutami tanto il sergente Donovan” (intanto le mie mani battono i codici per entrare nel DVR).



    Lestrade se ne va (credo di aver trovato la password).



    Sullo schermo del mac appare la mia immagine (tengo stretta la telecamera in mia direzione). Da qui posso resettare il DVR e appoggiare la telecamera ad un sistema diverso. Lascio il computer in lavoro mentre stila i codici nel terminale e nella console (ricordarsi di eliminare i dati nel monitoraggio delle attività). Provo un’insostenibile sensazione di ansia al pensiero che anche John è parte di questo gioco (ruba la mia concentrazione mentre mi passa davanti per sporgersi a guardare fuori dalla finestra). So a cosa sta pensando. Decido di dare una risposta ai suoi dubbi.



    “Stanno decidendo” (la mia voce è particolarmente monotona).

    “Decidendo?” (Gli trema la voce).

    “Se tornare qui con un mandato e arrestarmi”.



    Si volta (gli leggo la paura negli occhi).



    “Procedura standard” (ritorno alla telecamera).



    “Dovevi andare” (poca fiducia in me). “Le persone penseranno…” (lo interrompo).

    “Non mi interessa cosa penseranno gli altri”.



    “Ti interesserebbe se pensassero che tu sia stupido…” (a che gioco stai giocando, dottore?) “…o in errore” (lo interrompo di nuovo).

    “No, sarebbero loro stupidi o in errore”.

    “Sherlock, non voglio che tutti pensino che tu sia…” (si interrompe di scatto).



    I suoi occhi (così diversi).

    La fiducia è appesa a un filo. Sento che sta contemplando la possibilità che io non sia l’uomo geniale che lui conosce (paura di perdere John Watson per sempre).

    Il suo volto sembra quello di un bambino che ha paura del buio (io non ho mai avuto paura del buio). Le sue sopracciglia tendono verso l’alto, la sua bocca è serrata. Da ogni mio comportamento dipendono le sorti del nostro rapporto.



    “Che sia cosa?” (Lo guardo caricando la mia espressione di rabbia e disappunto).



    Non mi risponde subito. Attraversa qualche secondo di silenzio prima di pronunciare quel fatidico lemma.



    Un impostore”.



    Mi concentro su quel discorso. La mia schiena si appoggia totalmente allo schienale della sedia.



    “Temi abbiano ragione”.

    “Cosa?” (Dubbio e ansia nel suo tono di voce).

    “Temi che loro abbiano ragione”.

    “No” (lo dice sottovoce, quasi a tradire quella fiducia che cerca di dimostrarmi).

    “Per questo ti arrabbi, non contempli la possibilità che abbiano ragione perché temi che io abbia ingannato anche te” (non faccio in tempo a continuare la frase che sento un “non è vero” sussurrato tra i denti).

    “Moriarty gioca anche con la tua mente, riesci a capire che sta succedendo?!” (Violenta pressione della mia mano contro il tavolo).



    Rabbia, paura, ansia. Sto perdendo il controllo (è quello che Moriarty vuole).



    Al rumore della mia mano che sbatte contro la superficie, John sobbalza guardandomi con le sopracciglia rivolte definitivamente verso l’alto.



    Interminabili secondi di silenzio (insostenibili). Attesa. La sua risposta mi aiuterà a scegliere le parole migliori per la prossima frase.



    “No, ti conosco troppo bene”.

    “Al 100%?”.

    “Nessuno fingerebbe di essere un idiota per così tanto tempo”.



    Fiducia. John Watson si fida di me (ancora, nonostante tutto). Rassicurante (rapporto di reciproca fiducia).



    Mi perdo nei suoi occhi (ancora scossi dall’ansia e dalla paura) per pochi secondi; so che questa volta non posso fare passi falsi. Mi godo la sua presenza perché so che John Watson è la prima persona che Moriarty metterà nel suo mirino (non so come, non so quando).

    Devo mettermi sulla linea di tiro di Moriarty, scavalcarlo, essere sempre una mossa davanti a lui (è difficile sapendo che lui sta facendo esattamente la stessa cosa).



    Devo giocare al suo gioco, capire dove vuole portarmi (passo dopo passo).



    Affondo ancora negli occhi di John (che mi guarda con intensità). Gli accenno un sorriso (come per dire grazie). Mi sorride in tutta risposta (portatore di luce).



    Si volta verso la finestra. Il suo volto, piano, diventa sempre più triste e più agitato. Intanto mi sono appena reso conto che sono rimasto lì con il sorriso stampato in faccia.



    Ritorno alla mia telecamera. Non è la prima volta che faccio un lavoro di questo genere (ma dubito che Moriarty abbia ignorato questo dettaglio).



    Forse Moriarty ha ignorato che avrei trovato la telecamera prima che Lestrade venisse da me.



    Lavoro ancora un po’ nelle impostazioni del proxy.



    I miei occhi si allontanano dallo schermo per pochi minuti (mi concentro sul corpo di John, in cucina).



    Le mie dita battono sui tasti del computer (scrivo nel terminale).



    Telecamera resettata e appoggiata a un DVR diverso.



    Elimino gli ultimi dati nel monitoraggio delle attività (il computer mi chiede di inserire ancora una volta la password).



    Lavoro completato.



    Inserisco la telecamera in tasca, accesa (potrebbe rivelarsi più utile nella mia tasca che qui a casa).



    John mi si avvicina (due tazze, una nella mano destra e l’altra nella mano sinistra).



    Me la porge, non parla (cerco di mantenere il controllo).



    Bevo il tè molto velocemente (scotta ma ciò è irrilevante). John si siede sul divano e beve a piccoli sorsi. In poco la mia tazza è vuota.



    “John, questa è una guerra” (mi fermo di proposito). “Prendila come se fosse un ritorno in Afghanistan”.



    Non mi risponde. Si limita ad alzarsi, ad avvicinarsi e a prendere la mia tazza (per portarla in cucina).



    Osservo la sua figura di spalle (timore di perderlo per sempre).



    Mi alzo (di scatto), voglio abbracciarlo. Gli sono vicino. Si volta prima che le mie mani riescano a stringerlo.



    I suoi occhi nei miei (mi sembra di sentire la sua voce che dice di non vedere l’ora di sposarsi). Senso di responsabilità (non lo abbraccio). Gli sorrido, prendo la mia tazza dalla sua mano e mi sposto in cucina (lascio la tazza nel lavandino).



    Sconfitto (devo mantenere la lucidità).



    Ritorno in soggiorno e affondo nella poltrona (focalizzando il mio sguardo in un punto imprecisato della stanza).



    Non posso pensare a tutti i punti del piano di Moriarty (e di conseguenza alla mia tattica di risposta) perché per ora ho in mano pochi indizi. So solo che vuole far decollare il mito di Sherlock Holmes. Uccidermi non basta per uno come Moriarty.



    Ripenso a cosa ne sarà di John (non voglio perderlo).



    “In Afghanistan non ho mai avuto nessuno per cui combattere, nessuno da difendere, nessuno di cui temerne la morte” (mentre lo dice si siede sulla poltrona dinnanzi a me). “Questa volta non è come in Afghanistan, credimi”.



    “Nel senso che adesso hai qualcuno per cui vale la pena vivere, John? Mary, il tuo matrimonio, i tuoi futuri figli…” (mi si disintegra il cuore ad ogni sillaba, ad ogni accento).

    “No, Sherlock; nel senso che adesso combatto per te, difendo te e temo la tua morte come se tu fossi la persona più importante nella mia vita”.



    I miei occhi si spalancano. Lo guardo e temo ogni mia possibile reazione (dall’impassibilità all’esplosione emotiva). Quasi temo di più la prima (sento che la difficoltà ad esprimermi mi sta spingendo verso la prima opzione).



    “Parlami, Sherlock”.

    “Ti parlerei di Moriarty”.

    “Parlami di te”.



    Deglutisco.



    “Non so cosa dirti” (abilità nel dire tutto o nel dire niente in risposta a domande come queste).

    “Hai paura?”.



    Domando a me stesso se ho paura. Sì, paura di perdere John Watson. Ho paura di Moriarty? No, ho paura di quello che potrebbe fare a John. Tutto è in relazione a lui, adesso. Sento che la sua incolumità passa in secondo piano rispetto all’opinione pubblica nei miei riguardi (a costo che il mondo pensi che io sia un idiota).



    “Non lo so, John”.



    Sento che mi sto sciogliendo sotto il suo sguardo. Implosione emotiva. Mi mordo le guance con rabbia.



    “Ci sono volte che penso a te, Sherlock, quando eri ragazzo” (ride).

    Vuole rendere più leggero il momento? Perché?

    “Come sono nella tua immaginazione?”



    Si ferma (non ride più), guarda un punto indefinito del pavimento.



    “Triste” (si porta la mano destra alle labbra). “Ma potrei sbagliarmi, e lo spero”.



    Chiudo gli occhi e scivolo nel mio palazzo mentale.

    Voglia di vomitare tutti quei ricordi (ma non lo farò). Crepe (nel cuore, nella pelle, nella mente).



    “Ho anche qualche altra qualità nella tua immaginazione?” (Cerco di sorridere).



    “Sei il solito genio” (ride).



    Mi perdo in quella risata (così semplice, così sincera).



    Si alza per posare la tazza di tè che reggeva ancora nella sinistra. Si dirige in cucina mentre sento la sensazione di qualche cosa che si spezza all’interno del mio corpo.



    “Sarai sempre al mio fianco, John?” (Il mio tono di voce è leggermente più alto).

    “Sempre” (si volta e mi sorride, dolce).



    Il contatto visivo è spezzato dal suono del suo cellulare. Ignoro la cosa e scivolo di nuovo nel mio palazzo mentale (rielaboro la tattica di Moriarty). Penso che John non mi basti, qualsiasi sia la tattica scelta da lui (da Moriarty). Se in futuro avessi bisogno di qualcuno in particolare… devo fare attenzione. Suppongo che aiuti da parte di persone che si trovano all’interno di specifici settori siano indispensabili.

    Credo sia fondamentale stilare una lista delle persone che possono essermi utili.

    Per prima cosa ho John (pedina sicura). Potrebbero essermi di aiuto persone come Lestrade (essendo all’interno della polizia) o persone come la signora Hudson (che mi conosce da tanto ma al contempo che è un’insospettabile). Anche Mycroft in una situazione del genere potrebbe essermi di aiuto (ma per ora preferisco tenerlo sul fondo della lista).

    Temo di non avere nessun altro di fidato (la rete dei senza tetto in casi come questi mi è inutile).



    “Hai ancora amici in polizia, era Lestrade” (John posa il cellulare sul tavolo). “Mi ha detto che stanno venendo qui, fanno la fila per metterti le manette” (si ferma per poco). “Ogni agente che hai fatto sentire un imbecille, e sono parecchi”.



    La signora Hudson entra all’improvviso (“Cucù”).



    “Scusate se vi interrompo. Un tizio ieri ha portato un pacco, me n’ero dimenticata. E’ un oggetto deperibile, ed ho dovuto anche firmare!”

    Mi volto, guardo la busta nelle mani di John (familiare).

    “Aveva un nome strano! Tedesco… ? Come quello delle fiabe!” (Ride).



    Mi alzo, mi avvicino all’oggetto che sta per essere estratto da John. Appena gli sono vicino posso guardare il contenuto della busta.



    “Pupazzo carbonizzato…” (sussurro).

    “Che significa?” (la voce di John è più scura).



    Mentre mi calo nei miei pensieri sento il campanello.



    E’ l’ora di entrare in scena. Lascio tutto e mi dirigo verso il cappotto e la sciarpa.





    E loro sono qui, adesso. Mi vengono addosso, mi toccano (indescrivibile sensazione di fastidio a cui non posso oppormi). Le mie mani dietro la schiena (sto morendo ogni minuto di più).



    La voce di Lestrade si è fatta ora lontana.

    “Sherlock Holmes, la dichiaro in arresto per sospetto (“non fa resistenza!”) di sequestro di persona”.



    “Va tutto bene, John”.



    “Non sta facendo alcuna resistenza! E’ ridicolo!”.



    “Portatelo di sotto, adesso”.



    Le mani dell’uomo dietro di me mi spingono con violenza verso le scale (lo riconosco: gli dissi una volta che non sapeva fare il suo mestiere). Mentre scendo mi dice che sono una persona ignobile. Soffoco tutta la rabbia pensando a John.



    Mentre esco riesco ancora a sentire la voce di John (echi lontane).



    Sono fuori casa (ho perso la percezione del caldo e del freddo).



    L’uomo mi spinge con violenza contro l’auto della polizia (“sei un bastardo schifoso”).



    Abbasso il capo e contemplo la possibilità (una su mille) di perdere.



    Urla dal 221b (“dovevo aspettarmelo dall’amico di quello stronzo”). Sorrido. Talvolta penso che l’agnosticismo (con velate credenze romantiche sull’assenza della casualità) di John spieghi più cose del mio ateismo. Talvolta penso che se credessi in Dio lo ringrazierei giorno e notte per aver messo John sul mio cammino.

    Ma poi ritorno alla mia realtà priva di cose futili ed inesistenti come Dio e Destino (nel senso quasi divinatorio del termine).



    Con la coda dell’occhio mi sembra di aver intravisto il commissario capo grondante di sangue (bravo John). In pochi secondi anche John viene con violenza sbattuto contro la carrozzeria dell’auto.



    “Ti unisci a me?” .

    “Sì” (i poliziotti uniscono le nostre manette). “Sembra essere un reato tirare un pugno al commissario capo”.



    Bene. Primo passo falso della polizia (e poi si chiedono perché dica loro che non sanno fare il loro mestiere).



    “Sarà un po’ difficile” (il mio tono di voce è velatamente più alto del solito).

    “Trovare chi pagherà la cauzione?”

    “Stavo pensando più alla nostra imminente e audace fuga”.



    Interferenze provocate da una semplice e breve pressione applicata su un pulsante. Facile. Si piegano tutti contorcendosi al rumore provocato dai loro aggeggi elettronici (sfilo la pistola dalla fondina del poliziotto dietro di me).



    Mi allontano.



    “Signori e signore potreste cortesemente inginocchiarvi?!” (Lestrade mi guarda deluso mentre pronuncio queste parole).



    Sparo due colpi (impugno la pistola con la mano ammanettata a quella di John).



    “Avanti, avete sentito?!” (Le mie urla diventano più forti).



    (“Fate come dice!”).



    “Tanto per farvelo sapere, la pistola è una sua idea!” (Timore nelle sue parole). “Io sono un…”

    “Un mio ostaggio!” (Urlo puntandogli la pistola alla testa).

    “Sì, ostaggio, giusto…” (il tono della sua voce si abbassa repentinamente).



    “Che facciamo ora?” (Cerca di parlare a bassa voce ma il suo tono è decisamente più squillante del solito).

    “Quello che Moriarty vuole. Diventiamo fuggitivi”.



    Pochi secondi per razionalizzare e poi siamo in fuga tra le strade di Londra.



    Difficoltà di coordinazione.



    “Tienimi la mano!”



    La sua mano nella mia (stretta con vigore). Stringo anche io, forte. Sento che sono lì, adesso: in quel contatto tra la mia e la sua mano.





    Timore (adesso sempre più presente) di perderlo per sempre.


    ***




    Vieni a giocare. Tetto del Bart’s. Ho qualcosa di tuo che potresti volere indietro. -SH



    I miei occhi in un punto indefinito della stanza. Profonda sensazione di angoscia dinnanzi a tutte le tattiche che ho mentalmente stilato riguardo questa situazione.



    Tutte avranno delle conseguenze negative.



    Difficoltà nel mantenere la calma.



    Deglutisco e guardo John, cerco di imprimere nella mente la sua figura in caso dovessi utilizzare quel piano.



    Non sono psicologicamente e fisicamente pronto a farlo.



    Mi siedo per terra, le mie mani (entrambe) nei capelli. I sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde.



    Salvo il messaggio tra le bozze (lo invierò tra qualche ora, quando tutte le mie pedine saranno in posizione).



    John si siede al mio fianco, non parla; si limita a fissare lo scaffale dinnanzi a sé (quanto sono diventati più bianchi i suoi capelli dalla prima volta che ci siamo incontrati?). Lancio la pallina nera contro quello scaffale, lascio che vi rimbalzi contro e che ritorni nella mia mano.



    John posa la sua testa sulla mia spalla sinistra.



    Guardo l’orologio mentre lascia che le lancette girino nella loro smisurata lentezza. I pensieri torturano la mia mente (non riesco a godere del contatto fisico, assolutamente spontaneo, che c’è tra me e John).



    “Sherlock…” (il suo tono di voce è terribilmente rauco) “…qualsiasi cosa succeda, voglio che accada sia a me che a te” (si ferma per qualche secondo). “Anche se questo vuol dire andare incontro alla morte insieme. Non mi escludere, non farlo mai nemmeno nei tuoi pensieri”.



    Ripenso brevemente ai miei piani: tutti lo escludono, categoricamente. Il timore che possa succedergli qualcosa è tale da avermi spinto a posizionare pedine come la signora Hudson o Lestrade in modo tale da accerchiare John e da tenerlo lontano da questa storia (farà da solo le mosse che mi servono, senza essere coinvolto attivamente).



    “Non ti escluderò”.



    Il suo braccio sinistro mi stringe la vita (con il pollice della mano destra gli accarezzo il dorso della mano). Porto la mano destra alla sua spalla sinistra, poi lascio che la stessa scivoli dietro la nuca. Alza istintivamente il volto (sembra che si stia sporgendo verso il mio viso).



    Lo bacio.

    Questa volta chiudo gli occhi ignorando completamente la visione della sua reazione (riesco perfettamente a immaginare il suo volto sotto le mie palpebre chiuse). Concentro la mia attenzione sul senso del tatto (le sue labbra sulle mie, le sue dita che premono contro il mio fianco destro, la sua gamba destra posata sulla mia sinistra, il mio braccio sinistro a contatto con la sua spalla destra). Ogni volta che quel contatto diventa sempre più intimo, sento che il pensiero di Moriarty si sbiadisce sempre di più (sbagliato, irrazionale).



    Timore.

    Mi allontano.



    “Mi distrai, devo pensare”.



    Mi squilla il cellulare (messaggio).



    Avverti me e la signora Hudson almeno dieci minuti prima -G. Lestrade



    E’ inutile rispondere (non li avviserò dieci minuti prima, dovranno tenersi pronti).



    La presenza di John sul mio corpo mi rende colpevole agli occhi di Mary (il mio caos sta distruggendo il futuro del mio dottore).



    Mary. Penso a quanto sia stata presente nella vita di John (ad ogni litigio con me, ad ogni ansia, ad ogni problema). E’ una persona seria.



    E’ innamorata di John (“follemente”).



    Riprendo il cellulare. Scrivo un messaggio a Lestrade.



    Se ti dico che seguirò il piano F racconta tutto a Mary Morstan. Non deve dire nulla a John (per la sua sicurezza). Non farmi domande a riguardo, non ti risponderò -SH



    Penso che io non possa fare più nulla oltre a metterlo nelle mani della signora Hudson e di Mary.



    E’ necessario che lui non sappia niente (per la sua incolumità).



    Il piano F prevede più coordinazione e cooperazione degli altri. Se qualcuno sbaglia qualcosa si rischia di mandare a monte tutto.



    La mano di John, adesso, è concentrata a togliere quelle ciocche di capelli che mi si sono attaccate alla fronte (sudore).



    Le mie mani lo spingono indietro, il mio corpo su di lui. Lo bacio (di nuovo).

    Percepisco un velato senso di contraddizione tra i voleri dell’emisfero destro e quelli dell’emisfero sinistro. Per pochi secondi lascio che mi baleni l’idea di alzarmi e di comportarmi da persona razionale (ma temo che questo comportamento possa provocarmi rimpianti di vario genere).



    Le mie mani a contatto con il pavimento freddo. Ignoro la fastidiosa percezione e mi concentro su quello scontro di lingue. John lascia salire le sue mani dietro la mia nuca e mi attira a sé (di più, di più).



    E adesso non c’è più nessuna Mary, nessuna Molly, nessun Lestrade, nessun Moriarty. Sto disintegrando la realtà circostante (tentativo di prendermi il più possibile da lui prima della fine).



    “Ti amo ancora come dieci mesi fa”.

    Lo sussurra quasi come se fosse il nostro più grande segreto (lo è).



    La mia testa sul suo petto, le mie mani aggrappate alla sua maglia in filo di scozia. Piangerei se potessi (sensazione di vuoto sotto la pelle). Disperazione al pensiero di non riuscire a urlargli tutto il mio amore per lui.



    Mi stringo più forte al suo petto (la sua sinistra affonda tra i miei capelli).



    “Dimmi che finita questa storia inizieremo tutto da zero” (il tono della sua voce è più alto del solito).



    “Te lo giuro, John. Aspetta solo domani, ancora un altro giorno”.



    Le sue labbra di nuovo sulle mie (la mia mente si focalizza su quel contatto).



    No, non ci sarà un domani per noi.



    La mia mente si spezza al pensiero che su sei piani che ho preparato, ben cinque prevedono la nostra separazione. Non ho potuto fare di meglio (Mary saprà renderti felice più di quanto ti abbia reso felice io tra casi, inseguimenti e sparatorie).



    Il mio caos come l’Afghanistan. Volevi la guerra (sono la guerra). Non può esserci amore in guerra.



    Le sue mani scivolano sui bottoni della mia camicia (come quando eravamo vicendevolmente coinvolti in una relazione sentimentale). Le sue dita sbottonano (bottone dopo bottone) la camicia (lentezza nei suoi gesti). Mi cinge la vita (sotto la camicia) baciandomi ancora una volta.



    La sua gamba sinistra si fa spazio tra le mie (stimolazione del perineo da questa posizione).



    Penso alle circostanze (il luogo, l’occasione, Mary). Ignoro tutto (e lo bacio con frenesia).



    Le mie mani scendono sul bottone dei pantaloni (lo slaccio). Desiderio di togliergli la maglia blu in filo, la camicia (non c’è tempo). Le mie mani si concentrano sulla chiusura lampo (tentativo di non provocargli dolore aprendola di scatto).

    Cerco di apparire sicuro (mi tradiscono le mani che tremano).



    Le sue mani sul mio petto glabro.



    Con la destra cerco il contatto con il suo pene (costretto ancora in quel pezzo di stoffa). Gli tiro giù quello che ancora impedisce quel contatto.



    Ricordo le indicazioni agogiche che mi hanno aiutato la prima volta. Non le seguirò. La mia mano destra procede subito con un allegro qualsiasi (“Cristo”).



    Il suo membro pulsa sotto la mia mano (bagnata dal suo liquido preseminale).

    Penso che sia meglio non lasciare tracce di quello che sta succedendo (il mio viso scende verso il suo pene). Reprimo il riflesso faringeo e continuo a lavorare (lancia soddisfacenti gemiti di piacere).

    In pochi minuti (percepiti come istanti) si riversa tra le mie labbra.



    Ingoio ed ignoro il sapore (indefinito ed inclassificabile).



    Mi siedo con le spalle rivolte al bancone del laboratorio (sento la sua bassa temperatura anche attraverso gli strati di stoffa della giacca e della camicia). La mia mano destra scende verso il cavallo dei pantaloni, la sinistra è occupata a stringere il piede destro di John (disperato bisogno di contatto con il suo corpo). Stendo le gambe, slaccio il bottone dei pantaloni, tiro giù la zip. Libero l’erezione costretta in quegli indumenti stretti. La mia mano scende e risale percorrendo svelta tutta la lunghezza (chiudo gli occhi, apro la bocca).



    La mano di John sulla mia.



    Lascio andare il mio membro per fare spazio alla mano del mio dottore (che scende con vigore utilizzando la sua sinistra).



    Si ferma (inaspettato).



    Le sue labbra sul mio pene (poi scende, scende, scende).



    La mia mano sinistra gli sfiora i capelli (piano). Ogni secondo che passa sembra sia l’ultimo.



    La sua lingua e le sue labbra sul mio glande (poi sono di nuovo nella sua bocca).



    Lo guardo scendere ancora una volta mentre con la sinistra mi tocca i testicoli (sento che l’orgasmo è ormai prossimo).



    Piacere.



    Stringo gli occhi (forte) mentre raggiungo l’apice tra le sue labbra.





    Resto per pochi secondi con gli occhi chiusi (rielaboro gli ultimi avvenimenti, li catalogo e li posiziono nelle corrispettive stanze nel mio palazzo mentale).



    Le braccia di John attorno al mio collo (“mi fai impazzire, Sherlock”).



    Scorrono interi minuti nell’irregolarità dei nostri respiri.



    Penso che ormai sia l’ultima possibilità che ho (prima della fine).



    “John” (il mio tono di voce è serio, fermo). “John, ascoltami bene” (intenso contatto visivo).



    “Dimmi, Sherlock”.



    Aspetto qualche secondo, raccolgo quel po’ di forza che ancora mi è rimasta (psicologicamente e fisicamente). Pendo ormai dai suoi occhi.



    “Ti amo”.



    Ossitocina, endorfine.



    Temo che non riesca a comprendere la difficoltà nel pronunciare quella breve frase (e di conseguenza timore che ignori le mie parole o che le sottovaluti).



    Mi stringo a quella maglia blu in filo di scozia che odora di ammorbidente alla lavanda.



    Una carezza sulla guancia (delicata, dolce). Potrei sciogliermi sotto quella mano (potrei davvero).



    “Grazie di tutto, amico mio. Grazie”.



    Istinto di piangere (non lo farei mai).



    Mi disintegro in quell’abbraccio avendo la certezza che John abbia capito ogni mia difficoltà.



    Mi disintegro in quell’abbraccio sapendo che ho solo una possibilità su sei di riabbracciarlo ancora una volta.





    ***




    John dorme sulla sedia, testa appoggiata al bancone del laboratorio. Inala, inconsapevolmente, piccolissime quantità di tricloroetilene. Quando si sveglierà sarà lievemente confuso e dimostrerà qualche problema legato alla memoria a brevissimo termine. Nell’arco di mezz’ora avrà problemi di coordinazione motoria e possibili allucinazioni visive. Io sono lontano dalla fonte di tricloroetilene, ma non posso completamente escludere la possibilità di qualche effetto collaterale (lacrimazione, dispnea).



    Mi dispiace.

    Lasciare che inali trielina, però, è l’unico modo per tenerlo al sicuro.



    E’ nel mirino di Moriarty proprio come lo sono gli altri. Non posso permettere che succeda loro qualcosa (soprattutto a John).



    Sono tutti pedine in mano mia, adesso.





    Ritorno ai messaggi salvati nelle bozze. Eccolo.

    Vieni a giocare. Tetto del Bart’s. Ho qualcosa di tuo che potresti volere indietro. -SH

    Lo invio.



    Scrivo più messaggi.



    Piano A -SH

    Piano B -SH

    Piano C -SH

    Piano D -SH

    Piano E -SH

    Piano F -SH




    Li salvo tutti nelle bozze.



    Mi sarà più semplice inviarli a tempo dovuto.



    Ripenso alla tattica che corrisponde al piano F. In quel caso sarà tutto più difficile.





    Scrivo un altro messaggio.



    Fai chiamare Jones al numero di John, è il momento -SH



    Lo invio.



    Scivolo più in basso (le mie gambe sul bancone). Lestrade ormai lavora completamente per me, adesso.

    Uno squillo di risposta (messaggio).



    Jones sta per chiamare -G. Lestrade



    Mi stringo nelle spalle e mi godo l’inizio dello spettacolo.



    In pochi secondi il cellulare di John squilla. Un respiro profondo. John si sveglia, afferra il cellulare, risponde.



    La sua espressione cambia improvvisamente.



    “Cosa?! Cosa è successo?! Lei sta bene?!” (Si alza svelto dalla sedia).

    Continuo a fissarlo con la coda dell’occhio.

    “O mio Dio! Ok, sto arrivando”.



    Spegne il cellulare. Mi guarda (disperato).



    “Chi era?”.

    “Un paramedico. Hanno sparato alla signora Hudson”.

    “Cosa? Come?” (Resto calmo volontariamente).

    “Forse uno degli assassini che hai attirato, Cristo! Sta morendo!” (Si volta verso l’uscita).



    “Va’ tu, sono occupato”.



    “Occupato?!” (Mi viene addosso arrabbiato).

    “Rifletto, devo riflettere” (ho già calcolato tutto).

    “Non ti importa niente di lei?! Hai quasi ucciso un uomo che l’aveva solo sfiorata!”.

    “E’ la mia padrona di casa” (e l’Inghilterra cadrebbe senza di lei).

    “Sta morendo!” (Sempre più disperato). “Tu dovresti” (si ferma all’improvviso). “Al diavolo, al diavolo” (si ferma di nuovo). “Rimani qui se vuoi, da solo!” (Rabbia).



    “E’ l’unico modo che ho per proteggermi”.



    “No. Gli amici ti proteggono”.



    Mi sbatte la porta contro. Non c’è tempo per provare dolore (altro dolore). Deglutisco mentre imprimo nella mente la figura del mio dottore che va via.



    Penso che ci siamo lasciati in un modo davvero triste (sospiro).



    In quel momento ecco che il suono di un nuovo messaggio mi richiama alla realtà (tutte le mie pedine sono adesso in gioco).



    Estraggo il cellulare dal taschino interno della giacca.



    Sto aspettando… -JM



    E’ veloce. Ha già messo sulla scacchiera tutte le sue pedine.



    Lascio aperta la cartella dei messaggi salvati (mi basterà premere un pulsante per inviare il messaggio giusto).



    Adesso è l’ora di giocare.





    ***




    Respiro affannosamente (effetti collaterali del tricloroetilene o disperazione al pensiero di quello che deve accadere?). Le mie mani nei capelli, i miei occhi sul corpo di Moriarty (né completamente vivo né completamente morto).



    Adesso tutte le pedine di Moriarty sono nella posizione giusta per fare scacco (la partita non finirà con un matto del barbiere [13] da parte sua).



    Le punte dei miei piedi, adesso, sporgono di pochi centimetri dalla superficie del tetto.



    Prendo il cellulare, lascio scivolare verso destra il dito sullo schermo. Schermata dei messaggi salvati nelle bozze. Ne seleziono uno.



    Piano F -SH



    Invio.



    Guardo giù (18 metri; 59,055188 piedi).

    Mi si spezza in gola l’ultimo dolore (si avvicina un taxi).



    Il taxi si è appena fermato (aspetto di vedere John uscire dall’auto prima di inviare la chiamata).



    Eccolo (parestesia agli arti inferiori, in parte dovuta all’esposizione prolungata alla trielina).



    Compongo il numero (lo conosco a memoria). Corre in mia direzione mentre cerca il cellulare nella tasca sinistra.



    “John”.



    “Hey Sherlock, tutto bene?” (Affanna, inoltre la sua voce non è tranquilla).



    “Voltati e torna da dove sei venuto”.



    “Sto arrivando” (continua a correre in mia direzione).



    “Fa come ti sto dicendo!” (Mi fermo per pochi istanti). “Per favore”.



    Si ferma. Voltandosi indietro ricomincia a parlare (“Dove?”). Cammina e si guarda in giro, a destra e a sinistra (suppongo cerchi di intravedermi nel caos urbano).



    “Fermati lì” (tentativo di mantenere un tono di voce fermo).

    “Sherlock…”

    “Ok, guarda in alto: sono sul tetto”.



    Si volta piano, sussurra qualcosa che suona come un’imprecazione.



    Mi fermo momentaneamente, ripeto più di una volta il pronome personale di prima persona singolare (ansia o effetto collaterale della trielina?).



    “Io” (incespico di nuovo) “Io non posso scendere, quindi noi dovremmo proseguire in questo modo”.



    John sussurra ancora qualcosa di cui non riesco a delineare i contorni precisi.



    “Ti devo delle scuse”.

    Mi fermo momentaneamente e penso che sto per spingere giù Sherlock Holmes dal tetto di quell’ospedale.

    “E’ tutto vero”.

    Muore ogni centimetro di me ad ogni singola emissione vocale.



    “Cosa?” (La voce di John mi appare così spaesata, adesso).



    “Tutto ciò che hanno detto su di me” (mi fermo prima di saltare il prossimo ostacolo). “Io ho inventato Moriarty” (mi volto e fisso quel corpo né completamente vivo né completamente morto).



    Otto secondi pausa. Li conto ad un ad uno mentre sento che sto scivolando sempre più giù, sempre più in fondo.



    “Perché dici così?” (La sua voce, adesso, affonda nella paura e nello sconforto).



    Attraverso un altra pausa prima di iniziare a parlare di nuovo (e adesso sento un nodo alla gola impossibile da sciogliere).



    “Sono un impostore”.



    “Oh, Sherlock…!” (Disperazione?).



    “I giornalisti avevano ragione” (deglutisco prima di continuare). “Voglio che tu lo dica a Lestrade, voglio che tu lo dica alla signora Hudson e a Molly”.



    Mi volto momentaneamente verso Moriarty mentre pronuncio l’ultimo nome. Non avevi pensato a lei, vero?



    “Devi dirlo a chiunque voglia ascoltarti!” (Mi fermo per poco prima di lanciare l’ultima dichiarazione). “Io ho creato Moriarty per scopi personali”.



    Riesco a vedere le crepe che dai miei ricordi affiorano alla superficie del mio corpo.



    “Sherlock smettila, ora basta. La prima volta che ti ho visto, la prima volta che ti ho visto, sapevi tutto di mia sorella, giusto?!”.

    
“Nessuno è tanto intelligente!”.



    “Tu sì”.



    Rido (mi bruciano il volto quelle lacrime che mi rigano le guance).



    Ripenso agli ultimi diciotto mesi della mia vita. Sono stato felice? Nella mia mente gli occhi di John. Piango tutto il mio dolore (le lacrime di una vita intera, tutte quante in un solo istante).



    Una goccia di dolore precipita dal mio mento per poi disintegrarsi sulla mia sciarpa.



    “Io ho fatto delle ricerche” (le mie labbra hanno il sapore del sale). “Prima di incontrarti ho fatto tutto il possibile per impressionarti”.



    Mi sembra di vedere me stesso mentre calpesto tutta la mia esistenza.



    “Era un trucco, un semplice trucco” (si sovrappongono alle mie parole i dissensi di John).



    “Sherlock, smettila adesso!” (Cammina verso l’entrata dell’ospedale).

    “No, rimani esattamente dove sei!”



    Torna indietro (si posiziona comunque più avanti rispetto alla posizione precedente). Il suo braccio destro si alza in mia direzione (allungo il mio braccio sinistro verso di lui).



    (“Non muoverti!”).



    Sento che quella mano protesa verso di me mi sta scavando nel petto. Vorrei stringergli la mano (accarezzargli il dorso della sua mancina con il pollice).



    (“D’accordo”).



    Penso che non ci sarà un domani per noi.

    Ormai le parole si sono fatte lontane (e non è un effetto collaterale della trielina). Mi chiedo quanto alterata sia per John la visione di questo evento (a causa del tricloroetilene).



    (“Tieni gli occhi fissi su di me!”).



    Le lacrime scendono senza sosta. Potrei piangere tutti i miei liquidi corporei, adesso.



    (“Fallo John, te lo chiedo per favore”).



    Ritorno all’odore della sua pelle e all’ammorbidente dei suoi vestiti. Percezioni che ho ben stampato nella memoria.



    (“Fare cosa?”).



    Raccolgo le forze per portare a termine la mia tattica (proseguo verso l’autodistruzione).



    “Questa chiamata è” (mi fermo, tiro su con il naso) “è il mio biglietto” (mi fermo di nuovo mentre sento scendere ancora un altra lacrima sul mio viso). “E’ così che le persone fanno, no? Lasciano un biglietto”.



    “Lasciano un biglietto, quando?”.



    “Addio John”.



    Dissensi dall’altra parte della linea.



    Resto fermo altri pochi istanti prima di lanciare via il cellulare.



    Respiro (profondo).



    Come un vettore la cui origine parte dalla testa di cui l’estremo libero è il cuore.



    Le mie braccia si aprono, chiudo gli occhi (ripercorro i tracciati della sagoma di John). Le mie braccia come le ali dei miei angeli.



    Apro gli occhi (tutto sta per compiersi). Moriarty.

    Scacco matto.







    E adesso risuona solo un vecchio grido già sentito.

    (“SHERLOCK!”)






    ***




    “Ero così solo e ti devo così tanto”.

    Le sue mani sulla lapide nera, lucida (‘Sherlock Holmes’ laccato in oro).

    Ha gli occhi cerchiati, non cammina bene. La sua voce non è ferma e lascia trasparire tutti i suoi sentimenti (rabbia, tristezza, confusione).



    Si allontana da quel pezzo di marmo nero piangendo.



    “Ti prego, c’è ancora una cosa; un ultimo miracolo per me, Sherlock” (si volta e torna indietro). “Non” (incespica sulle parole, inciampa ad ogni accento) “essere” (si ferma di scatto) “morto” (il suo tono di voce è diventato incredibilmente più acuto).

    “Potresti…” (soffoca le lacrime) “potresti farlo per me? Voglio che la smetta, smetti questa farsa”.



    Mi irrigidisco. Vorrei poter uscire allo scoperto e stringergli le dita delle mani (no, non è ancora il momento).



    Si stringe nelle spalle, adesso. Piange con il mento sul petto.



    Le mie mani scivolano nelle tasche del cappotto.



    Osservo la sua figura mentre si volta e riprende svelto il suo cammino (il suo corpo tende a destra).



    Il mio dottore, il mio soldato.



    Ho il volto contrito e la pelle secca. Gli occhi bruciano come non facevano da anni.



    Sono passati diciotto mesi da quell’incontro (“Afghanistan o Iraq?”). Credo di aver compreso ed assimilato più cose in diciotto mesi con John Watson che in diciannove anni con gli Holmes.



    Le mie dita sfregano la pelle coperta dagli strati di tessuto (la camicia, la giacca, il cappotto). Ogni volta penso che sia l’ultima.

    Non è facile smettere (sapendo di non avere chi mi toglie le dita dallo stantuffo della siringa ipodermica).



    Talvolta la cocaina rende instabili i contorni della figura di John.



    John Watson.



    Non avevo mai amato nessuno.



    Scivolo nell’ombra del mio cappotto e mi dirigo, a passi lenti, all’uscita del cimitero (come un vettore la cui origine parte dalla testa di cui l’estremo libero è il cuore).



    Sensazione di vuoto sotto la pelle.



    Sono privo di identità (Sherlock Holmes l’impostore è ormai morto).



    Sciolgo la mia rabbia nel pensiero di un altro buco sulla pelle.





    ***




    Ore 8.27 p.m. Sette gradi scarsi all’esterno. Tè?

    Domenica, Dicembre (24).

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).



    Le mie mani restano vuote mentre resto fermo nel centro di Londra.



    Nessuno si ricorda più di me.



    Deglutisco mentre, appoggiato ad un albero, vengo illuminato dalle luci della mia città. Ho le labbra fredde, gli occhi secchi. Guardo la felicità altrui nel periodo più brutto dell’anno.



    Il mio volto si perde nella luce di un appartamento al secondo piano a Cranbourn St.



    Si ride ad ogni angolo delle strade di Londra (mentre si suona musica adatta alla festività).



    Dalla finestra appaiono due figure.



    Sospiro mentre sento che gli angoli della bocca si sono automaticamente piegati verso l’alto.



    La mia mente segue tutte le curve delle sue mani mentre apre la finestra, tutti i tracciati percorsi dalla ricrescita bianca dei suoi capelli, ogni piega sul suo meraviglioso mosaico di rughe sul viso.



    Ride, ride tanto ed è anche un po’ ingrassato. Sembra stia bene. Mi sembra di aver visto un riflesso su una delle dita (non ha mai indossato anelli, suppongo sia la fede).



    Si allontana dalla finestra ma è ancora visibile. Abbraccia una donna bionda, sicuramente Mary (lei sa tutto).



    John indossa un maglione rosso con dei disegni norvegesi bianchi (nuovo).



    Imprimo nella mente questa visione mentre i due spariscono lontani dalla finestra (felici).





    Ripercorro a piedi la strada che va da Cranbourn St al cimitero dove sono stato sepolto (mi sento lì, adesso). Prima passo per Baker St.



    Non penso a nulla, e non ho nulla a cui pensare.



    Scivolo per le strade di Londra come se fossi un estraneo.



    La mia Baker Street è illuminata poco. Mi sembra di sentire l’odore di casa mia.

    Le luci nel 221 sono spente; nessuno abita al 221b o al 221c. La signora Hudson passa il Natale con i figli, come ogni anno.



    I vetri delle finestre del 221b sembrano impolverate (forse lo sono).



    Con le mani in tasca e privo di qualsiasi identità mi tuffo di nuovo nel caos metropolitano della mia città.



    Una signora sui quaranta mi sbatte contro. Mi chiede scusa e se ne va, dimenticandomi.

    Non sa che con uno sguardo solo ho letto tutto quello che potevo dalle sue scarpe (costose ma consumate, ne deduco quindi che sta affrontando un periodo di crisi economica), dai suoi accessori (gioielli di valore ma opachi, usati presumibilmente solo per le occasioni come le feste natalizie), dalle sue gambe (peli bianchi, visibili sulla gonna nera, all’altezza del ginocchio; suppongo abbia un cane di grandi dimensioni), dalla fede al collo e dal colore dei vestiti (vedova da molto, dato l’abbigliamento).



    I cancelli del cimitero sono ancora aperti (“sbrigati che dobbiamo chiudere!”).



    Con poca voglia e con il nulla nella testa, i miei piedi arrivano fino alla lapide nera, priva di illuminazione propria (come un vettore la cui origine parte dalla testa e di cui l’estremo libero è il cuore). Mi concentro momentaneamente su quell’epitaffio, ormai così lontano da ciò che sono adesso (“confusione” a grandi lettere maiuscole su quella lapide nera che sento così invadente sotto la pelle). Mi siedo e guardo la terra sotto di me.



    Sotto la mia mano una busta bianca.



    La apro come se stessi scartando un regalo. Con delicatezza lascio uscire il foglio dalla busta.



    “Buon Natale Sherlock,

    John Watson”.




    Leggo e rileggo quel messaggio. Lo stringo a me mentre mi dico che distruggere me stesso per lui sia stata la cosa più razionale che potessi fare.



    Ripenso a ciò che John mi ha insegnato.



    Ad amare, suppongo (si allontana il pensiero della cocaina). Deglutisco. Ripercorro tutte le volte che ha dovuto medicarmi. Ripercorro tutte le volte che mi ha ripreso dicendomi che non dovevo utilizzare le persone (come cose, come oggetti). Ripercorro tutte le volte che il suo buonsenso si è scontrato contro la mia immoralità. Ripercorro tutte le volte che ci siamo abbracciati, baciati, amati.



    Sento di non avere realmente bisogno di un altro buco.



    Mi stringo nel cappotto pensando a questo Natale senza la sua presenza (e le sue idee riguardo tale festività).



    Quel biglietto tra le mani mi fa sentire meno solo. Mi fa sentire più Sherlock Holmes.



    Porto la testa all’indietro poggiandola alla mia lapide.



    Gocce d’acqua sul mio viso (non è solo pioggia). Concerto per violino e orchestra op. 64 in mi minore, Mendelssohn (come i vecchi tempi). Odiavo Mendelssohn (e ora?).



    Non c’è stato un domani, quel giorno. Ma un domani ci sarà comunque. Dovrà esserci.



    Questa sera sono di nuovo io, con te.





    Sherlock Holmes,

    consulting detective.





    Buon Natale, John Watson.















    ***



    Note






    [1] “Le mie mani si poggiano sul disco nero, lucido”. Non sarà canon da nessun punto di vista, ma quel disco nero e lucido è un disco in vinile. Pardon, da ascoltatrice “vecchio stampo” non riuscivo a pensare a Sherlock che ascoltasse musica in maniera diversa.

    [2] “Scherzo (sempre Mendelssohn)”. “Scherzo” è un’indicazione agogica.

    [3] “Alessitimia”. L’alessitimia è l’incapacità di percepire, riconoscere e descrivere i propri e gli altrui stati emotivi.

    [4] “Billy che mi comunica il suo affetto”. Billy è il nome del teschio di Sherlock.

    [5] “Sogno di una notte di mezz’estate”. Le musiche di scena di “Sogno di una notte di mezz’estate” sono state composte da Mendelssohn.

    [6] “Romanze senza parole”. Titolo della raccolta di quarantotto brevi brani composti da Mendelssohn, gli stessi citati un paio di righe più su.

    [7] “Ricerca dell’oblio o dell’esaltazione?”. Nel canone Sherlock Holmes fa uso di due sostanze: morfina e cocaina; decide di fare uso dell’una o dell’altra in base alla crisi da cui è colto.

    [8] “Flash (sensazioni orgasmiche in ogni millimetro cubico del mio corpo)”. Quando la sostanza viene iniettata per via endovenosa, il soggetto prova una singolare sensazione di euforia chiamata “flash” che dura qualche minuto; spesso spinge il soggetto a ripetere l’iniezione con una seconda dose. Il flash è seguito da una fase di depressione chiamata down.

    [9] “Sig. Holmes, sono venuta da lei perché un tempo ha aiutato la mia datrice di lavoro, Cecil Forrester”. Nel canone Mary Morstan va da Holmes proprio perché quest’ultimo ha risolto il caso della sua datrice di lavoro, tale Cecil Forrester.

    [10] “(Forse) con te farei l’amore (solo con te). Demisessualità. Lo lessi in un libro parecchi anni fa”. La demisessualità è un orientamento sessuale appartenente alla Gray Area del triangolo di Aven. I demisessuali provano desiderio ed eccitazione sessuale solo come conseguenza ad un forte e singolare attaccamento romantico/emotivo.

    [11] “Qualcosa riconducibile al Runner’s High”. Con il termine “Runner’s High”, letteralmente “sballo del corridore”, si intende quella sensazione di euforia riscontrata da molti atleti durante e dopo la pratica sportiva prolungata. Tale condizione neurochimica è dovuta al rilascio di endorfine da parte dell’ipofisi durante l’esercizio fisico di media o lunga durata. Le endorfine agiscono sul fisico come se fossero una vera e propria droga.

    [12] “Filofobia”. La filofobia è la paura di innamorarsi o di amare una persona.

    [13] “Non finirà con un matto del barbiere da parte sua”. Il matto del barbiere è una trappola d’apertura scacchistica. Consiste in un particolare scacco matto che avviene dopo poche mosse. Tutto si concentra sulla casella f7 controllata dal nero che, difesa solo dal re, non vanta di una efficace posizione di difesa. In questo errore (ovvero nella possibilità di rendere possibile lo scacco all’avversario già dalle prime mosse) incappano spesso molti principianti.

     
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    Mi bacia (ancora). I suoi baci diventano sempre più veementi (intimi). Una mano sotto la (mia) maglietta. Percorre l’ampiezza del mio torace con la mancina. Piacevole. Telotismo (interessante reazione del mio fisico a quel contatto). Il suo respiro si è fatto ora irregolare. Le mie mani dietro la sua testa, forte pressione delle sue labbra sulle mie (mi morde il labbro inferiore). Si allontana (ancora), velocemente si toglie le scarpe. Mi accorgo di quanto anche il mio respiro si sia fatto irregolare, svelto.

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    CITAZIONE
    (feromoni da tutti i pori).

    Ho immaginato robe strane.

    Comunque sto ai 3/4 della prima parte.
    Non che non abbia voglia di leggere. E' solo che io sono lentissima nella lettura.
     
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  7. ~ Ritux
     
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    CITAZIONE
    Ho immaginato robe strane.

    Rotolo.

    Comunque è lunghissima, ti capisco. Non saresti la prima a leggerla lentamente. xD

    La gif è amore. <3
     
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    Ho finito la prima parte.
     
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  9. ~ Ritux
     
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    CITAZIONE (Krigerinne @ 24/6/2013, 00:44) 
    Ho finito la prima parte.

    Quindi stai continuando a leggerla :piange:
    Tì vì bì.
     
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    Certo. Volevo scrivere roba ma ho rimandato tutti i commenti alla fine.
     
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  11. ~ Ritux
     
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    CITAZIONE (Krigerinne @ 24/6/2013, 16:46) 
    Certo. Volevo scrivere roba ma ho rimandato tutti i commenti alla fine.

    bbbbbbello :D):
     
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10 replies since 27/5/2013, 22:58   190 views
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