Epitaph

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  1. ~ Ritux
     
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    Parte 1







    ***








    Prima di ogni cosa voglio e devo ringraziare la mia beta reader (sei la migliore, dico davvero), Ann Mitchell; senza di lei non sarei riuscita a finire questa impresa titanica. Perchè sì, lei non è stata solo una beta (ribadisco: la migliore) ma la mia personalissima portatrice di luce. Non esistono parole per definire ciò che ha fatto, e continua a fare, per me. Grazie mille, ma che dico, grazie anni luce.



    Passiamo alla storia. In genere non mi piace scrivere prima dell'inizio ma sono obbligata a farlo per una serie di circostanze. Per prima cosa perdonatemi per la lunghezza; sì, avete ragione cari lettori, non è semplice leggere una fanfiction da 23000 parole, ma spezzarla sarebbe stato nocivo per quanto concerne l'atmosfera e la linearità. E' scritta in "blocchi" e l'intervallo di tempo tra un blocco e l'altro non è regolare: possono esserci tre blocchi narrativi che seguono gli avvenimenti di una giornata esattamente come possono esserci tre blocchi narrativi che seguono avvenimenti accaduti a mesi di distanza. Il lettore ne sarebbe uscito confuso se avessi deciso di spezzarla in più capitoli. Secondo avvertimento: in questo racconto ci sono numerosi riferimenti alla droga e alcuni blocchi narrativi sono incentrati su questa tematica. A chi si è sentito turbato già solo dalla descrizione: non leggetela. Dico sul serio, non vi azzardate a leggerla. Vi potrebbe disturbare parecchio. Terza e ultima cosa: inizialmente potrebbe apparire difficile seguire questa storia dato lo stile narrativo scelto (volutamente telegrafico). Nel corso del racconto, comunque, cambierà; resterà, sì, telegrafico ma diventerà decisamente più lineare e introspettivo (anche qui: volutamente). Come accennavo nella descrizione, questa storia narra della crescita interiore del personaggio.



    Detto questo, grazie a chiunque abbia deciso di tuffarsi in questa sciocchezzuola che, in quanto durata, fa invidia a quel colosso che è "Il Titanic". Buona lettura.













    Epitaph





    "Confusion will be my epitaph.

    As I crawl a cracked and broken path

    If we make it we can all sit back and laugh.

    But I fear tomorrow I'll be crying,

    Yes I fear tomorrow I'll be crying"








    Ore 7.28 a.m. Undici gradi scarsi all’esterno. Fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?



    Domenica, Febbraio.


    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano parallele al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, fischia.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Non sento più alcun fischio.



    Dolore alla caviglia (contusa?). Ricordarsi di mettere una pomata analgesica.



    Rumore di passi che si avvicinano. Sembra che tu ti stia trascinando (nuove ciabatte, suppongo siano molto più grandi del numero che porti).



    Porta che si apre (rumore, fastidio). Due tazze; una nella mano destra, l’altra nella mano sinistra (le nocche della mano destra sono più rosse, probabile che ti sia scottato involontariamente).



    “Ti ho fatto il tè”.

    “Lo vedo”.



    Sorride (guarda altrove).



    Letto matrimoniale. Troppo grande per una persona sola (dormo sul lato sinistro).

    Lenzuola e piumone sul mio lato (c’è posto anche per te, se vuoi).

    So che vorresti.

    Lo so.



    Si siede al mio fianco, mi porge quella tazza di tè che mantiene nella sinistra (bollente).

    Inspira, espira. Inspira. Poi espira di nuovo.

    Soffia nella tazza.

    Aspetta che si raffreddi.



    John Watson è un uomo incredibilmente ordinario. Conosco tutto di lui. Mi basta osservarlo per capirlo (l’ultima frontiera sarà leggergli i pensieri).



    Canticchia (cerco di ricostruire le note). Mi rimanda a una vecchia canzone del ‘74 (“don’t let the sun go down on me”?). Odio quell’album. Odio la musica pop.

    Non smette di canticchiarla. Non lo fermerò, cercherò di prolungare la sua permanenza al mio fianco il più possibile.



    “Casi?”.

    “Per oggi intendi?”.

    Annuisce, poi beve.

    “Aspetto che Lestrade mi chiami, è improbabile che arrivino clienti in una piovosa e fredda domenica di Febbraio”.

    Annuisce (di nuovo), continua a bere. Bevo anche io. Mi guarda negli occhi, sorride.



    Conto le tue rughe. Ogni mese si aggiunge una ruga in più al mosaico di pieghe sul tuo viso.

    Più le conto e più sembra concreto lo scorrere del tempo (quel che ci resta da passare insieme).



    “Ieri all’ambulatorio è venuta una madre con un bambino”.

    “…Sì?”

    Non riesco a seguire con tanta facilità questi discorsi (odio incontrollabile per le conversazioni senza argomento preciso).

    “Il piccolo indossava un maglione molto simile a uno dei miei, quello blu a costine”.

    Annuisco (irrilevante).



    “Ieri Lestrade ha detto che dovrei trovarmi qualcosa da fare che non riguardi i casi”.

    “Greg non ha tutti i torti, ogni essere umano si lascia trascinare da hobby, passioni…”.



    Bevo (noia).



    Vorrei far entrare le persone nella mia testa (in realtà non ho così tanta voglia di farlo).

    Farei entrare te nella mia testa.

    Sei l’unico a cui aprirei le porte del mio Palazzo Mentale.



    “Hai intenzione di rimanere a casa, Sherlock?”.

    “Hm”.

    Risposta atona (non so cosa dirti, John).



    “Hai qualcosa da fare, tu?”.

    “No, niente”.

    Scuote la testa.



    Bevo.



    I nostri piedi non si toccano, ma riesco a sentire lo scontro tra la temperatura bassa dei miei e quella alta dei suoi.

    Capelli bianchi (un ciuffo più chiaro parte a qualche centimetro dall’orecchio, si espande poi nella massa di capelli biondo cenere).



    Bevo.



    “Pioverà tutta la giornata?”.

    Mi guarda, è serio. Leggo nei suoi occhi un gran punto interrogativo.

    “Cosa c’è? Adesso parliamo del tempo?”.

    Sorride (no, ora ride).

    Resta con gli angoli della bocca puntati verso l’alto, mento sul petto, occhi fuori dalla finestra. Solo adesso noto un piccolo taglio dietro la nuca (l’ultimo caso ti ha portato delle ferite di guerra?)

    Mantengo la tazza con la mia mano sinistra (il tè è ancora molto caldo, ma adesso può essere bevuto in modo relativamente facile). La mano destra lungo il materasso (lieve pressione al mio fianco, i movimenti di John fanno scivolare la mia mano verso di lui).



    La pioggia adesso batte forte.

    Adesso ci sono anche i tuoni.

    (Prendere nota: uscire con l’ombrello, indossare gli stivali).



    “Ti ricordi di Elizabeth?”.

    Mi volto (i miei occhi si concentrano sulla sua bocca). Elizabeth?

    Ricerco nel mio palazzo mentale.

    Elizabeth.

    Terzo piano, corridoio 5, stanza 6.

    Elizabeth Ann Short, Black Dahlia. Caso irrisolto di omicidio. 15 Gennaio 1947. Principali sospettati: Robert M. Manley; Walter Alonzo Bayley, Joseph A. Dumais, Woody Guthrie, George Hodel, Norman Chandler, George Knowlton, Orson Welles, Jack Anderson Wilson. Probabile nesso con l’omicidio di Georgette Bauerdorf e di Suzanne Degnan (entrambi riconducibili al Macellaio di Cleveland o al Killer del Rossetto). Sul corpo della vittima non fu rinvenuto il tatuaggio di una rosa sulla coscia destra della vittima (fonti certe riguardo la presenza di quel tatuaggio).

    Elizabeth.

    Ottavo piano, corridoio 13, stanza 38.

    Elisabetta di Baviera, principessa Sissi. 1898, lungolago di Ginevra. Assassinata dall’anarchico italiano Luigi Lucheni da una stilettata. Morì venti minuti dopo per emorragia interna al ventricolo sinistro.



    “John, la Dalia Nera? O forse alludi alla duchessa di Baviera?”.



    Un grosso punto interrogativo sul suo volto. Mi sembra di vederlo mentre (piano piano) risucchia gli occhi e la bocca di John in quel grande ricciolo incuriosito (fastidio, quella visione mentale provoca confusione).

    “In realtà intendevo quella mia collega all’ambulatorio. Non so se riesci a ricordarla… è bassa, capelli ricci e corti, bruna…”.

    No John, è ovvio che io non la ricordi. E’ inutile ricordare delle persone che non apportano alcun cambiamento positivo o negativo alla ricerca e alle indagini investigative.

    “No, non mi sembra di ricordare questa donna”.

    Deluso.

    Sorride (non sei deluso?).

    “Non importa”.



    Si alza. Il mio corpo perde il baricentro mentre il dottore (il mio dottore) si alza dal letto. Mi guarda (ti guardo).

    “Se mi cerchi, sono di sopra, ho da sistemare delle cose”.



    La porta che si chiude (sbatte) mi riporta a quella freddezza ben nota.

    Ore 7.39 a.m. Undici gradi scarsi all’esterno.

    E poi la mia tazza è vuota.








    ***






    Concerto di Mendelssohn nella testa (perché?).

    A me non piace Mendelssohn.

    Suono?

    Le mie mani si poggiano sul disco nero, lucido [1]. Mendelssohn. Parte l’ouverture. Allegro molto? Dodici minuti circa (non l’ho mai apprezzato realmente).

    John mi ha ripetuto più volte di non suonare (e di non far suonare i dischi) di notte. Inutile. Questa sera c’è solo Mendelssohn.

    Ho una mosca nell’orecchio (La Dalia Nera?).

    Studiare un vecchio caso (perché?).

    Elizabeth Ann Short, Black Dahlia. Ventidue anni. Squarciata a metà nel ‘47. Vistosi segni di tortura e manipolazioni ante e post mortem. I principali sospettati sono un chirurgo, un soldato, un medico, un cantante folk, un editore, un regista e un alcolizzato; di altri due non conosciamo la professione. Profonde lacune indiziarie per Manley, Dumais (nonostante si sia auto-accusato), Guthrie, Chandler e Wilson. Ci restano, di conseguenza, Bayley (il chirurgo), Hodel (il medico), Knoltown (di cui non conosciamo la professione) e Welles (il regista).

    Di Knoltown e di Hodel abbiamo solo testimonianze e accuse da parte dei figli.

    La vedova Bayley ci riporta invece testimonianze di un “terribile segreto” a cui faceva riferimento il marito.



    No, niente del genere.



    Tra i vari sospettati spicca il nome dell’auto-accusato Joseph A. Dumais. Nonostante le svariate prove che dimostravano la sua presenza in New Jersey nel giorno della morte della Dalia Nera, il soldato continuò ad auto-accusarsi dell’omicidio di Elizabeth Ann Short. Fu condannato più volte per reati minori. Continuava a ripetere di essere l’assassino. Perché?

    Mi rimanda al regista Orson Welles.

    L’uomo aveva prestato servizio militare nella seconda guerra mondiale. Welles, per divertire i soldati al fronte, conduceva spettacoli di magia in cui si dilettava in illusioni che comprendessero tagli effettuati a metà corpo e poi “magicamente” risanati. L’uomo amava i tagli. Aveva creato un set cinematografico per “La signora di Shangai” in cui tutti gli attrezzi di scena erano tagliati. Considerava il taglio come una sua personalissima firma.



    Complici? Hanno in comune un fronte e un sospetto per omicidio.

    Dumais non avrebbe avuto alcun guadagno nel coprire Welles, a meno che gli interessi non fossero di natura extra-personale.



    Troppo semplice.



    Scherzo (sempre Mendelssohn) [2]. Circa cinque minuti. Volgare.



    Dovrei dormire.



    Passi sulle scale (pesanti, lenti). Sono sul divano (il mio volto in direzione della finestra). La porta si apre. Passi. Ecco, entra. Si ferma (mi guarda?). Si siede sul pavimento (la nuca sul mio braccio sinistro).

    “Non immagini quanto ti faccia bene riposare”.

    “Anche a te farebbe molto bene, eppure sei qui”.

    Testa all’indietro (più indietro). Cerca un contatto visivo con me (nonostante il buio).



    “Non riesco più a fare sogni tranquilli in questi giorni”.



    Non so cosa fare (non m’interessa?). Non è vero, sono interessato a lui. Non posso aiutarlo. Mi guarda (di nuovo). Conforto? Una mano (la mia) sulla testa (la sua).

    Mi stringo nelle spalle. Alessitimia [3], mi avrebbe urlato uno dei tanti camici bianchi che ho incontrato nella mia vita.



    Si alza (vai via?). No (si siede al mio fianco). Mano (la sua) sulla fronte (la mia). Mano (la sua) tra i capelli (i miei). Leggera pressione sulla mia testa. Confuso.

    Si avvicina (labbra sulla mia fronte). Odore di dopobarba (nuovo, alla menta).

    Si alza.

    Va via.

    Non dice nulla.



    Alessitimia.

    Sento ancora l’odore di quei camici bianchi e le urla di un bambino che non voleva guardarli.








    ***






    Ore 7.12 a.m. Nove gradi scarsi all’esterno. Aspetto il fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?

    Lunedì, Febbraio.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano parallele al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, sta per fischiare.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Adesso sento il fischio del bollitore.



    Il dolore alla caviglia sembra essere passato (non era una contusione).



    Confuso.

    Labbra (le sue) sulla fronte (la mia).

    Affetto?

    Ho riservato a questi eventi un corridoio nel mio palazzo mentale.



    Nono piano, corridoio 3, stanza 1: mia madre che mi porta mano nella mano al parco (non c’erano risentimenti in quegli anni?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 8: Billy [4] che mi comunica il suo affetto (è stata davvero la morte prematura che ti ha allontanato da me?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 15: mio padre che mi tocca i capelli (era ancora mio padre quello lì?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 24: Mycroft che si complimenta con me per aver risolto il mio primo caso ufficiale (c’erano già rancori?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 38: John che si complimenta con me in generale (mi stimi davvero così tanto?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 41: John che mi abbraccia (perché provavo così poco fastidio in quel contatto fisico?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 45: John che mi dice di volermi bene (io riesco a volerti così bene?).

    Nono piano, corridoio 3, stanza 49: John che mi stringe la mano (come faceva mia madre?).



    Nono piano, corridoio 3, stanza 51: John che mi bacia la fronte.

    Non lo dimenticherò.




    Rumore di passi che si avvicinano. Sembra che tu ti stia trascinando (sono sempre quelle nuove ciabatte più grandi del tuo numero? Presumo di sì).



    Porta che si apre (rumore, fastidio). Due tazze; una nella mano destra, l’altra nella mano sinistra (le nocche della mano destra sono ancora rosse).



    “Ti ho fatto il tè”.



    Annuisco.

    Sorride (guarda altrove).



    Quotidianità.

    Adesso prenderai posizione al mio fianco (come tutte le mattine) e mi porgerai la tazza che mantieni nella sinistra. Mi farai qualche domanda, cercherai di raccontarmi qualche aneddoto avvenuto all’ambulatorio. Mi parlerai di qualche donna che mi sfugge e che non sono interessato a ricordare.



    Sto bene (mi sembra).



    Sogno di una notte di mezza estate. [5]







    <span style="font-size: 26px;">***






    Ore 7.31 a.m. Dodici gradi scarsi all’esterno. Fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?

    Martedì, Febbraio.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano parallele al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, fischia.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Continuo a sentire quel fastidioso fischio.



    Non mi sembra di avere più quel dolore alla caviglia. Non ho usato alcuna pomata analgesica. Sicuramente non era contusa.



    Il fischio si arresta.

    Aspetto solo i passi di John.



    Confuso.

    Mi sembra di essere un embrione che galleggia nel liquido amniotico (lontano dal mondo).

    Noia? Non ho un caso da tre giorni.



    Confuso.

    La mia mente continua a vagare su strane percezioni provocate dalle dita che si incontrano (si scontrano) nello scambio di una tazza, sulle braccia che cingono il corpo in un abbraccio, sulle labbra che si posano sulla fronte in un bacio.



    Pensiero delle tue labbra sulle mie.



    Marcia Nuziale, Mendelssohn. Volgare, grossolana.



    Ti amo.







    ***






    Primo sparo contro il muro (crepe dalla forma circolare a mezzo metro dal divano, verso l’alto).



    Forse dovrei ritornare alla cocaina.



    Secondo sparo contro il muro (altre crepe dalla forma circolare a mezzo metro dal divano, verso l’alto).



    La cassetta.

    L’ho nascosta in una buca coperta da una mattonella.




    Terzo sparo contro il muro (si è appena sollevato un pezzo del parato).



    E’ sotto il comodino, nella mia stanza.



    Passi di corsa per le scale. Non sono i passi di John. Questi sono svelti ma leggeri (il peso del corpo sulla punta dei piedi). La signora Hudson.



    “Sherlock! Il mio muro!”

    Mi volto, la guardo. Sbuffa. Si guarda in giro (gli angoli della bocca verso il basso, le estremità interne delle sopracciglia rivolte verso l’alto).

    “Hm…”.

    Soffia.



    “Caro…” .

    Compassionevole.

    “Hai fame?”.



    Mi guarda, braccia conserte, occhi dolci. Il tono di voce è rassicurante.



    “No, non ne ho”.

    Abbassa la testa, mi sorride (mi guarda dal basso). Va via.



    Affondo nella mia poltrona. La pistola è calda, lucida.



    Bisogno di cocaina (perché?).



    Passano i giorni (la mia brama di eccitazione è la mia personalissima cura alla noia o all’attrazione romantica nei confronti del mio dottore?).



    Non è ancora tempo per un altro buco sulla pelle.







    ***






    Ore 7.18 a.m. Dodici gradi scarsi all’esterno. Fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?

    Mercoledì, Febbraio.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano parallele al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, fischia.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Il fischio si è appena arrestato.



    Quotidianità.



    I passi di John sul pavimento (le ciabatte nuove), la porta che si apre, la pressione sul lato destro del mio letto mentre il dottore (il mio dottore) si siede al mio fianco. Dita che s’incontrano, tazze di tè. Discorsi su donne che non conosco (o che non ricordo?), nessun argomento fisso. Piedi che si avvicinano, mani nei capelli, sguardi. Lamenti (noia), consolazioni. Baci sulla fronte, baci sulla guancia.

    Poi andrai via, ti preparerai per andare all’ambulatorio.



    Splendida quotidianità (sto davvero così bene?).



    No.



    Lieve pressione sul lato destro del mio letto mentre il dottore (il mio dottore) si siede al mio fianco. Mi porge la tazza (incontro delle dita, scontro tra i nostri indice e medio). Sorriso (stanco?). La sua tazza sul comodino.



    Inaspettato.



    Testa sulla mia spalla (destra) braccio (destro) intorno alla mia vita.

    Confusione.

    Non mi parlerai di donne, oggi?



    “Ho il turno pomeridiano”.

    “Hm”.

    Risposta atona.



    “Ieri Mycroft mi ha chiamato, ma ero fuori con Lestrade e non ho sentito il cellulare. Ho provato a richiamarlo ma non mi ha risposto”.

    “Hai chiesto a Lestrade perché non condivide più i casi con me?” (tono della voce troppo alto, ciò provoca silenzio).

    “In ogni caso credo che Mycroft passerà in giornata” mi dice (mi stringe più forte).

    Restiamo fermi.



    Bevo.



    Quarantotto brevi brani per pianoforte composti da Mendelssohn.

    Mendelssohn continua a suonare tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro.

    Romanze senza parole. [6]



    “Sei di poche parole in questi giorni”.

    Sorprende i miei pensieri.

    “Non ho nulla da dirti, John”.

    Il dottore (il mio dottore) si stringe nelle spalle. Spinge la testa verso il mio collo. Sospira. Il suo respiro sulla mia pelle (solletico).

    “E’ la noia” (la mia voce è più profonda di prima).

    Sospira (di nuovo). Mi stringe forte (il suo piede destro tra i miei). Pressione sul mio corpo. In altre situazioni mi avrebbe infastidito.

    Alza la testa (piano).

    “In questi giorni ho pensato allo storico omicidio della Dalia Nera”.

    Di nuovo un punto interrogativo sul suo volto.

    “Perché?”.

    Noia?

    Alzo le spalle, guardo verso la finestra. Non lo so.

    I suoi occhi cercano un contatto visivo con i miei (quella ruga sul lato esterno dell’occhio destro diventa di giorno in giorno più marcata). Sorride (mosaico di pieghe sul volto).



    Mi alzo dal letto, allungo le gambe (dolore alle caviglie?). Il mio corpo si spinge in avanti. Blocco (ostacolo?). Una mano mi tira indietro. Mi volto. Continua a tirare (fastidio). Il mio corpo ricade sul letto (mi posiziono frontalmente al suo corpo, la gamba destra sotto di me)

    Mi avvicino a lui con il busto. Mi abbraccia (forte, fastidio, confusione).

    Contatto fisico (più irruente di prima).

    Le sue mani dietro le mie spalle, le sue labbra sulla clavicola (la mia) sinistra.

    Ricerca veemente del contatto fisico (perché?). Mi cogli impreparato.



    Variations Sèrieuses (Mendelssohn).

    Pianoforti che accarezzano il trasporto di quel momento.



    La mia mano (sinistra) sale verso il suo volto. Le sue labbra si staccano dalla mia clavicola (mi guarda). Mi bacia il collo (sensazione strana).



    “Sherlock…” .



    Mi bacia il mento (percezione singolare).



    Sospira (continua a parlare).



    “Tu… insomma” (si ferma). Riparte. “Credo che la nostra sia…”



    Esitazione (tensione? Paura?)

    “…Sia qualcosa di diverso da una…”

    Classica amicizia?

    “da un…" (esita) "rapporto normale tra amici”.



    Mi bacia di nuovo sul mento (più vicino alle labbra, questa volta).

    Amore? Non c’è sesso. Affetto.

    Ti amo (senza sesso?).



    “Abbiamo superato un limite che non dovevamo varcare”.

    Abbiamo?



    Mi bacia sulle labbra.



    Concerto per violino e orchestra op.64 (Mendelssohn).

    Resto fermo. Le labbra di John sono calde, morbide.

    Contatto fisico. Strano (fastidio?)

    Timore (perché?).



    Si allontana, mi guarda.

    “Non posso. Non ti piacerà. Soffrirò. Soffriremo entrambi”.



    Mi bacia sulle labbra (di nuovo).

    “Ti stancherai”.



    Un altro bacio sulle labbra. Partecipo.

    Movimenti a ritmo con l’andante di Mendelssohn.

    Sensazione incomprensibile alla mia psiche. Labbra che si muovono, si schiudono. Carezze.

    Contatto fisico (desiderato?).

    Ultimi lievi tocchi sulle mie labbra prima che si stacchi di nuovo (desiderio di rimanere lì).



    “Ti stancherai”.

    Abbassa la testa e la poggia sulla mia spalla sinistra, fronte a contatto con il mio collo.



    Mi stancherò. Le persone mi stancano (sempre). Mi stancherò anche di John (il mio dottore?). Potrei ignorare la cosa (irrazionale). Al contrario potrei prenderla in considerazione (razionale) ma decidere di non dare peso al problema (irrazionale).

    Potrei prenderla in considerazione e agire di conseguenza (razionale).

    Lasciarlo andare. E’ questa la reazione razionale a tale situazione?



    “Richiederebbe impegno, costanza. Potremmo fare un tentativo, ma…”

    Lo guardo. Esitazione. Alza la testa.



    “…Mi stancherei” (la mia voce baritonale echeggia nella stanza).



    La sua testa di nuovo sulla mia spalla (pressione).



    “Lo riconosci anche tu”.



    Si alza. I piedi sul pavimento (passi pesanti). La mano sul pomello della porta (gira verso destra, apre, esce).





    Freddo.

    Dodici gradi scarsi all’esterno. Apparenti trenta gradi celsius sotto lo zero nel mio corpo. Mi sembra di vedere una distesa antartica che si estende sulle coronarie.



    L’allegretto ma non troppo di Mendelssohn si conclude tra strumenti scordati e violini spezzati.







    ***






    Ora di pranzo (convenzionalmente). Fame?

    Un’auto nera (un vecchio modello di BMW) appena parcheggiata sotto casa.

    No, non ho fame.

    Passi sulle scale (lenti, regolari, pressione nella norma applicata dalle punte dei piedi). Si ferma dietro la porta (tempo di ripresa del respiro?).

    “Credo che tu debba continuare la tua dieta” (grido).

    Apre la porta, mi guarda. Volto corrucciato. Mycroft (questa volta hanno sbagliato a fare le pieghe dei pantaloni, visibile la linea della stiratura).

    “Non ho tempo da perdere, Mycroft”.

    Riprendo a suonare (quinto di Paganini).

    “Rilevanza nazionale” accenna (banale). Si siede sulla poltrona di John (John è uscito?).



    Non lo ascolto. Accenna qualcosa riguardo narcotrafficanti e missili balistici. Se non erro mi sembra di aver sentito anche qualcosa a proposito di patti internazionali.



    Non avrei collaborato.

    Continuo a suonare.



    Ho accennato l’op.4 di Berg, ma Mendelssohn continuava a urlarmi nella testa. Da Paganini a Berg, da Schubert a Mendelssohn. Inizio a delineare qualcosa dal concerto per violino e orchestra in re minore (è già buio).

    Si apre la porta. Continuo a suonare. Termino l’andante. Ripongo il violino, l’archetto e il poggia spalla nella custodia. Mi volto. Mycroft non c’è (immagino sia andato via da un pezzo), al suo posto c’è John che legge il giornale.



    “Quella roba che hai suonato… bella, davvero” (non stacca gli occhi dal giornale).

    “Grazie”.

    Lo guardo (parole pesanti che scivolano tra me e lui).

    “Volgare Mendelssohn”.

    Deglutisce e volta pagina.



    Fare finta di nulla. E’ questa la sua reazione razionale alla situazione di stamane?



    E’ il momento di tornare alla cocaina.







    ***






    Ore 7.53 a.m. Otto gradi scarsi all’esterno. Nessun fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?

    Giovedì, Febbraio.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano perpendicolari al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, ancora non fischia.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Non sento alcun fischio.



    Guardo l’orologio (tardi).



    Rottura di una quotidianità (confusione).



    Mi alzo, apro la porta, attraverso il corridoio. Il salotto è vuoto. Silenzio. Mi stringo nella vestaglia blu.



    Rumore di passi celeri per le scale. Apro la porta, guardo su (eccolo, sta scendendo). Vestito, capelli in ordine. Mi guarda svelto, farfuglia qualcosa (“Se vuoi il tè sai dov’è il bollitore”), va via.



    Noia e delusione (non so quale delle due sensazioni mi faccia più male). Distesa antartica sulle coronarie (credo si estenda anche al ventricolo destro).

    Pressione nella parte alta dell’addome, apparente sensazione di pesantezza. Respiro irregolare. Le gambe faticano a reggere il peso. Questa situazione mi confonde.

    Quotidianità interrotte, elaborate poi dai centri sottocorticali dell’encefalo (l’amigdala riceve impulsi direttamente dai nuclei posteriori del telamo) che provoca reazioni autonomiche e neuroendrocrine con lo scopo di mettere in allerta l’organismo (accelerazione del ritmo cardiovascolatorio, ritmo respiratorio irregolare, aumento della tensione muscolare, sudorazione, midriasi pupillare).



    Attraverso (di nuovo) il soggiorno, la cucina, il corridoio. Arrivo nella mia stanza. Solo. Sposto il comodino, mi piego (polvere). Cerco la mattonella traballante.

    Trovata.

    La alzo. Intravedo la scatola di legno. La prendo.



    Pausa.



    Sono deluso? Amareggiato? Arrabbiato?



    Irrazionalità.



    Osservo la cassetta: legno scuro tendente al rosso (mogano?), apertura in ottone laccato oro (graffi su questa ed intorno ad essa). Mani che tremano (tremano ogni volta).

    Mi siedo sul letto (ricerca dell’oblio o dell’esaltazione? [7]). Nella scatola due boccette, siringhe ipodermiche sterilizzate (buste opache), aghi, laccio emostatico.



    Ricerca dell’esaltazione (ovviamente).



    E’ la noia che altera le mie condizioni psicofisiche. Cambierà. Tutto cambierà. Ho la cura alla mia noia.



    Il laccio emostatico che preme sul braccio.



    L’ago nella vena (la pelle si piega verso il basso fino a raggiungere il punto critico in cui cede, momento in cui l’ago raggiunge la vena).



    Flash (sensazioni orgasmiche in ogni millimetro cubico del mio corpo). [8]







    E adesso ci siamo solo io e la mia euforia.







    ***




    L’esaltazione dura poco (dolori alla testa, sensazione di rigetto). Due dita in gola, riflesso faringeo. Sto meglio.



    Ginocchia sul pavimento (freddo), mani sulla testa, nei capelli. Occhi rossi, miosi pupillare. Forti rumori all’esterno (qualcuno sta sbattendo la porta del bagno, chiama il mio nome). Confusione. Stringo i pugni, cerco di alzarmi, cado. Dolore al petto, ritmo respiratorio irregolare. Prendo grosse boccate d’aria, chiudo gli occhi. Confusione. I pugni contro la porta. Guardo il mio braccio (sinistro); osservo l’ultimo segno sulla mia pelle. Lieve parestesia al braccio (sinistro). Normale. Forti rumori (il mio nome urlato a squarciagola). Confusione.



    Mi rialzo (dov’è l’euforia che avevo fino a qualche ora fa?), apro la porta. Il tempo di osservare una bocca che si spalanca e poi il buio.





    ***



    Lenzuola (fredde) sul mio corpo. Piumone? Assente all’appello. Alla mia sinistra c’è metà del mio letto (perfettamente in ordine). Io dormo sempre a sinistra, ora sono a destra. Mi volto (verso destra). John (mi guarda). Ha una mano sulla mia testa? Nei miei capelli.

    La luce mi infastidisce.

    “Hai avuto una sincope” (non constatare l’ovvio, John). “Perché? Perché ti fai questo?”.



    Mi concentro sulla sua bocca. Le parole adesso si confondono, perdono di significato (non parlare, John). Le sue labbra; spaccature sul labbro inferiore (ansia? Oppure hai avuto paura?).



    Mendelssohn mi perseguita (Allegro ma non troppo, suoni di violini che sovrappongo inconsciamente alla visione del mio dottore).



    Mi spingo in avanti, cerco la sua bocca. Lo bacio. E’ perfetto così (dentifricio). Lo bacio (di nuovo). Le sue labbra, la sua lingua, la mia mano dietro la sua nuca, il peso del suo busto contro il mio corpo (esaltazione maggiore di quella provocata dalla cocaina?).



    La sua testa sul mio petto.



    Confusione.



    Ti amo.







    ***






    Sabato, Febbraio. Ore 12.34 a.m.

    Sono passate due settimane dalla sincope. Dopo la cocaina sono tornati i casi, le corse per tutta Londra, il tè la mattina.



    Non riavrò quei baci.

    Sembra voglia ignorare di sua spontanea volontà (perché?).



    Ho appena chiuso un caso di triplice omicidio. Mi aspettavo che John si complimentasse con me (come sempre). Non l’ha fatto (rientra nella tua tattica?).



    Incrocio le gambe, mani sui braccioli della poltrona.



    La cassetta non è più sotto la mattonella ma è lì, sul camino (John, credi davvero che questo possa servire? Stupido). La guardo. Un odio mistico nei suoi riguardi, un amore passionale. Versatile. Capacità di donarti euforia e oblio.



    La cura per la noia.



    Potrei davvero adesso, mentre John è qui al mio fianco, prendere la scatola e farmi un’altra dose.



    Non lo farò (non per me o per John). Un’auto si è appena fermata sotto casa (un’Aston Martin d’epoca). Adesso suonerà il campanello.



    Eccolo.



    Pressione per più di mezzo secondo (cliente). Non mi muovo dalla poltrona. John si alza, posa il giornale, si sistema la camicia.



    Passi sulle scale, voci femminili (riconosco quella della signora Hudson).



    La porta si apre.



    “Buongiorno, sto cercando il sig. Holmes”.

    Voce incerta. Non mi volto, mi limito a rispondere (“Prego”).

    “Sig. Holmes, sono venuta da lei perché un tempo ha aiutato la mia datrice di lavoro, Cecil Forrester” [9].

    Annuisco. Ricordo quel caso. Inutile.

    John si siede dietro di me lasciando la (sua) poltrona libera. La donna si avvicina (piano), poi prende posto dinnanzi a me.

    “Il mio nome è Mary Morstan”.

    “Il caso della Forrester era una banalità”.

    “Il mio non lo è”.

    Sorrido.

    “Prego, esponga pure” (accompagno quanto detto da un movimento in avanti operato dal braccio sinistro).



    “Mio padre era un soldato. Negli anni ‘90 ha prestato servizio nella prima guerra del golfo ma, terminata questa nel ‘91, continuò a servire il paese in quelle zone di guerra. Mia madre si ammalò gravemente in quegli anni, poi morì. All’epoca la persona che assunse la mia potestà fu mia zia paterna. Talvolta ricevevo lettere da mio padre. E’ sempre stato molto affettuoso nei miei riguardi. L’ultima lettera mi arrivò nel ‘01: mi annunciava lietamente il suo ritorno. Mi disse di raggiungerlo al Langham Hotel, Londra centrale. Per me Londra era una città nuova: ho vissuto a Edimburgo per tutta la mia vita, di conseguenza temevo di non riuscire ad orientarmi. Mi presentai lì, chiesi del colonnello Morstan, mio padre; mi dissero che era uscito la sera prima e che non era più tornato. Lo aspettai per tutto il giorno, poi decisi di sporgere denuncia. Mio padre, da allora, non fu più visto da nessuno”.

    Annuisco. Mani giunte sotto il mento.

    “Cosa aveva con sé?”.

    La donna mi guarda, si ferma (pensa).

    “Il bagaglio… ma non ricordo ci fosse qualcosa di rilevante”.

    “E questo può essere detto perché la valigia si trovava in albergo, giusto?”.

    Fa cenno di sì con la testa.

    “Continui”.

    “Circa sei anni fa mi arrivò una raccomandata con ricevuta di ritorno. La busta era indirizzata proprio a me e conteneva una perla di rara bellezza. Da quella volta, ogni anno, mi arriva una perla attraverso posta raccomandata. Un esperto, amico mio, mi ha dichiarato che si tratta di perle di altissimo valore”.

    Continuo ad ascoltare, scivolo nella poltrona (sempre più in basso).

    “Ma lei non sarebbe qui se non fosse successo davvero qualcosa di diverso, signorina”.

    Mi guarda. Sorride.

    “Oggi mi è arrivata questa lettera” mi porge la missiva sporgendosi verso di me (mentre lo fa, osserva John dietro la mia spalla sinistra).

    Guardo la busta. Timbro postale Londra S.W., data 18 Febbraio. Osservandola mi sembra di riuscire a vedere l’impronta del pollice destro di un mancino. Nessun indirizzo. Apro la busta. Carta pregiata. Leggo la lettera ad alta voce.

    “Lyceum Theatre, 20 febbraio, ore 7.00 p.m, terzo pilastro da sinistra. Porti due amici (se vuole). No polizia. Le è stato fatto un grave torto e lei avrà giustizia”.

    Mi fermo. Guardo la reazione della donna di fronte a me.

    “…Firmato ‘Sconosciuto’”.

    Le porgo di nuovo la busta. Osservo John (che osserva la donna).



    “La busta con le perle conteneva anche qualche messaggio?”.

    “Sì, c’era sempre un biglietto con su scritto il mio nome”.

    “Ha con lei quelle lettere?”.

    Abbassa la testa, fa cenno di no.

    “Però, sig. Holmes, posso assicurarle che è la stessa grafia!”.

    Pausa.

    “Non può essere la grafia di suo padre? Non vorrei darle false speranze…” (dottore, tu guardi ma non osservi).

    “John, è chiaramente una grafia contraffatta”.



    Pausa.



    “Un’ultima domanda” (continuo a guardare il soffitto) “Suo padre aveva amici qui a Londra?”.

    “Solo uno, per quanto ne sappia. Un tale maggiore Sholto”.



    Pausa (di nuovo).



    “Cosa devo fare, sig. Holmes?”



    Accavallo le gambe, guardo il soffitto.



    “Ha due amici con cui visitare ‘Sconosciuto’ questa sera, signorina Morstan”.





    ***




    Ore 7.22 p.m. Taxi.

    La Morstan mi ha appena mostrato un biglietto interessante (riconducibile al caso? Verificare). Sembra sia una mappa indicativa (non conosco abbastanza parametri da poter definire il luogo). Firmata “Il segno dei quattro”. Il padre della donna che ho alla mia sinistra conservava questo biglietto nel portafoglio (il lato sinistro, quello all’interno, non è consumato quanto il lato destro, ovvero quello che si trova all’apertura della tasca interna). Inoltre non era solito tirarlo fuori dalla sua locazione (i segni delle piegature sono così marcati che il foglio potrebbe spezzarsi lungo queste).



    John e Mary parlano. Discorsi insulsi (“Ho sempre voluto fare il medico, in realtà”, “Io, invece, non ho mai desiderato lavorare come segretaria in un ufficio, però poi mi sono accontentata lo stesso”).

    Pause. Si guardano.

    Si conoscono complessivamente da circa 30 minuti.



    Ho un’illuminazione. Aspetterò di ritrovarmi sul luogo per confermarla.

    Comunicarla con John? Al mio fianco c’è Mary Morstan.

    Mi volto (cerco John). Trovo altro.



    Il mio sguardo si ferma su quelle mani, l’una nell’altra, mentre continuano a discutere di argomenti insulsi (“Abbiamo molto in comune, dottor Watson”, “John, chiamami John”).







    ***




    Giovedì, febbraio. Ho chiuso il caso da appena due ore. Tè?

    Sono molto soddisfatto, il caso è stato davvero interessante.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Tesori dal Medio Oriente. Rapimenti. Inseguimenti in barca. Tracce di creosoto. Adrenalina.

    Adesso l’ipofisi inizia a produrre significative quantità di endorfina. Piacevole. Rilassante.



    Tè?

    Il mio sguardo si concentra su quella cassetta sul camino (no, non ho bisogno di te per ora).

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).



    Mi alzo dal divano, cerco John.

    (“evita di chiamarmi, per cortesia, questa sera sto con Mary”).



    Mi fermo. Il mio corpo cade sul divano (forte). Midriasi. Confuso.

    Pensiero delle mani di Mary in quelle di John.



    Serata insieme. Ceneranno (penderanno l’uno dagli occhi dell’altro). Guarderanno un film insieme (un film che sia abbastanza noioso da non permettere ad entrambi di concentrarsi troppo sulla trama). Si toccheranno. Si baceranno.



    Faranno sesso.



    Concentrarsi così poco sulla mente umana per lasciare spazio al desiderio erotico. Inutile.



    Durerà poco (come sempre). Sarà troppo difficile per John scegliere tra me (il caos) e la donna del momento (il cosmos). Non c’è compromesso tra le dita in frigo (il tè della mattina) e l’amore di una donna (sesso regolarmente).



    La riforma, Mendelssohn (allegro con fuoco).



    Suono?







    ***




    Sabato, Aprile. Ore 10.28 p.m.

    Dura più del previsto. Questa sera Mary è a casa con noi. Gira per casa (il suo sguardo indaga sul microscopio).



    “Cosa stai… uhm…” (indugia sul termine da usare) “…Osservando?”.

    “…Studiando”.



    I nostri discorsi sono costellati di pause, tempi gravi alternati ad improvvisi confronti a ritmo di un allegretto qualsiasi.

    Mary Morstan è una delle tante; niente di più, niente di meno.



    “Idrocarburi policiclici, adesso sto studiando alcune caratteristiche molecolari dell’Isoprene”.



    Mi guarda.



    “Ah sì… l’Isoprene…”.

    “Non sforzarti di apparire più intelligente, non ci riesci”.



    Pausa. Sguardo nell’oculare.



    Pressione (violenta) alla spalla sinistra. Riconosco l’origine del vettore nella sua mano destra, al contrario non riesco a definire l’estremo libero. Spinta. Si allontana, va verso il soggiorno (da John).



    E’ così stupida. Non si è nemmeno accorta che sul vetrino non ho nulla.



    Andante con moto - Allegro maestoso (Mendelssohn) che si confondono nella visione di un caldo abbraccio da parte di John.

    Con te mi sbilancerei. (Forse) non mi stancherei. Amore (senza sesso)? Affetto. Contemplazione.

    Medito.

    Amore.



    Confuso.



    Con te oserei. (Forse) baratterei i miei casi per te.



    (Forse) con te farei l’amore (solo con te). Demisessualità. Lo lessi in un libro parecchi anni fa. [10]



    Una mano dietro la schiena (pressione, familiare, sussultazione, piacere). John.



    “Giochiamo a carte, vieni?”.

    Lo guardo. No, non voglio venire (preferisco continuare ad inalare trielina in quantità industriali).

    “Sherlock, mi farebbe piacere”.

    No, non voglio venire, lasciami solo.

    “Non ti prometto che giocherò a lungo, John”.



    Il mio corpo verso il soggiorno (come un vettore la cui origine parte dalla testa e di cui l’estremo libero è il cuore).



    Mary sorride (sincera). Colpa (mia).



    Sei in bilico tra il suo amore e il mio indefinito sentimento (proprio come io, adesso, sono in bilico tra la sempre fedele sfera razionale e la tanto agognata sfera irrazionale).





    (“Non posso. Non ti piacerà. Soffrirò. Soffriremo entrambi. Ti stancherai”).



    Lasciarti andare è stato così poco razionale, John.





    ***




    Ottetto per Archi, Mendelssohn. John e Mary si sfiorano le dita, si guardano negli occhi. Portarli sulla scena del crimine è stato un errore (“John, ho bisogno di te, vieni?”, “Ma questa sera sto con Mary…”). Mano nella mano. Lestrade mi si avvicina, saluta John (e Mary), mi mostra quanto ritrovato sul corpo della vittima (ventidue anni, maschio bianco, Liverpool). Nel portafoglio più biglietti del Cavangh’s Bar, un interessante biglietto con dei disegni (Ciliegia, campanella, win. Sembrano disegni di una slot machine), e un foglio strappato (H. ascolta 275FM).



    Brixton, ore 11.57 p.m.

    Entriamo in un appartamento, uomo morto sul pavimento. Mi guardo in giro (Gregson e Athelney Jones della narcotici). Fiale di morfina sparse per la casa (spacciatore? Verificare).

    Mi chino sul corpo. Noto subito il colpo di pistola (calibro 50, suppongo) alla nuca. Dev’essere stato sparato ad una distanza ravvicinata, dal momento che il segno del proiettile si trova proprio al centro della nuca (sparare a media distanza al centro della nuca con una calibro 50 è impossibile). Il sangue è ancora relativamente fresco, è stato ucciso da poco.

    “Sherlock, non hai bisogno di un dottore per capire che si tratta di un colpo di pistola…” (la voce di John è più bassa del solito).

    Mi alzo, mi guardo di nuovo in giro. Suppongo ci sia stata una lite prima della morte dell’uomo (verificare). Sul tavolino altri biglietti del Cavangh’s Bar. Ci sono anche dei bicchieri di popcorn (alcuni pieni, altri vuoti, altri consumati a metà) del Cavangh’s Bar. Cliente assiduo (verificare).



    “Mary non tocc-” (interruzione brusca della frase). “Ma cosa diavolo…?!” (voce stupita di John). Mi avvicino. Mary ha alzato un bicchiere di popcorn e vi ha trovato una fiala di morfina attaccata al fondo con del nastro adesivo.



    Questo caso potrebbe rivelarsi interessante (ho già nove idee sulle possibili soluzioni, mi servono solo altri pochi indizi). Prendo il cellulare, cerco il Cavangh’s Bar. Trovato. Old Compton Street, Soho.



    “John, andiamo al Cavangh’s Bar”.

    Mary incrocia le braccia, mi guarda (infantile).

    “Non era proprio il modo migliore per passare questa serata”.



    Spero se ne vada, mi distrae.



    John la prende per mano, le dice qualcosa. Peccato. Lestrade mi farfuglia qualcosa (“Ricordati che devi trovare l’assassino, non girare troppo intorno alla cosa. Ci sono già quelli della narcotici che se ne occupano”).



    Taxi. Old Compton Street.



    Mary continua a discutere. Inutile (John è interessato al caso).

    (“Non girare troppo intorno alla cosa”).

    Farò il lavoro della narcotici e il lavoro della omicidi abbastanza velocemente da chiudere completamente il caso.



    Sinfonia n.2 in Si bemolle maggiore, Mendelssohn.



    Il taxi si ferma. Arrivo. Scendo dall’auto. Pago. Cerco il Cavangh’s tra tutti i locali aperti. Trovato. Mi dirigo lì. Il luogo è caratteristico: un locale old style poco illuminato (spiccano le slot machine all’angolo). Al Cavangh’s Bar servono anche popcorn (c’è un tizio che ha appena ordinato un bicchiere, lo mantiene molto basso). Mi chino (fingo di allacciarmi le scarpe), guardo il fondo del bicchiere quando mi passa accanto. Come immaginavo, ecco una fiala di morfina attaccata sul fondo. Così (dannatamente) facile.



    John mi tocca la spalla, mi fa cenno con gli occhi di guardare verso la porta in fondo al locale (il mio sguardo era già puntato lì). Uomini che entrano ed escono (c’è un cameriere che mantiene la porta aperta quando passano, si guarda in giro con aria sospetta).

    Suppongo ci sia una frase, un codice, qualcosa di identificativo che permetta a quegli uomini di entrare. Ci penso. Trovato.



    Mi avvicino alla porta (sento Mary dire di avere paura, di tornare a casa).



    “Fermi là… che volete?”.

    (John si guarda in giro) “Entrare” (strabuzza gli occhi).

    “Cosa ascolta H.?”.

    “275FM” sorrido (avevo visto giusto).

    “Entrate”.

    Ci apre la porta.



    Facile (adesso le idee sono già quattro).



    Scendiamo le scale (buio). Una luce sembra apparire in fondo. Eccola.



    Una grande stanza piena di slot machine (c’è anche un tavolo da biliardo). Come immaginavo. Mi avvicino alla prima slot machine. Cerco di ricordare la sequenza (Ciliegia, campanella, win). Tiro giù la leva. Appare la campanella al secondo posto. Premo il pulsante hold. Tiro giù la leva di nuovo. Niente. Tiro giù di nuovo. Appare la ciliegia al primo posto. Premo il pulsante hold. Tiro giù la leva di nuovo. Niente. Tiro giù di nuovo. Ancora niente. Tiro ancora una volta. Al terzo posto appare win.

    Rumore di meccanismo (qualcosa si è sbloccato). Tocco la slot machine (ai lati, sopra, davanti). Trovato. Si è aperto un cassetto. Mi chino.

    Fiale di morfina in quantità.



    Interessante. Mando un messaggio a Lestrade (“Cavangh’s Bar, ora. Porta un mandato di arresto. Ho fatto prima della narcotici. -SH”).



    “La puttanella lì chi è? E’ nuova?”.

    Voci. Si riferiscono a Mary (ignora). Si stringe contro John.



    Mi guardo in giro. Dev’esserci un responsabile. Ripenso a “H. ascolta 275FM”.



    (“Harry Hunt mi sta alle costole. Gli devo ancora 6347£”)



    Faccio cenno a John di salire. Usciamo da quella sala poco illuminata e ci ritroviamo di nuovo nel bar.



    John e Mary escono (istintivamente), io mi fermo al banco. Ascolto le conversazioni. Niente di interessante. Chiedo un bicchiere di whisky.



    “Quanti siete qui?” chiedo.

    “Che intendi?”.

    “In quanti lavorate in questo posto. Siete pochi per un locale così frequentato”.

    “Siamo di più. Alcuni escono… consegne, sai.” mi guarda mentre butto giù la sostanza alcolica.

    Osservo la situazione. E’ appena tornato un altro dipendente del Cavangh’s (il suo volto sembra scosso). A lui si avvicina l’uomo che mi aveva servito da bere (si allontanano, si fermano vicino allo scaffale delle bottiglie). Parlano. Ascolto (con estrema attenzione).

    (“Sono nei guai fino al collo. Sono arrivati prima del previsto”, “Ti hanno beccato?”, “No, ma lo faranno. Non voglio più avere niente a che fare con Hunt. Basta!”, “Calmati Mick”, “Al diavolo!”)



    Harry Hunt offre un doppio servizio sia ai clienti che ai lavoratori. I clienti possono usufruire del bar e della droga. I lavoratori sono pagati sia per il loro servizio al bar sia per gli omicidi su commissione. Eppure siamo entrati con estrema facilità all’interno e nessuno ci ha chiesto soldi. Questo significa che il cliente può usufruire illimitatamente delle sostanze stupefacenti (sia attraverso il bar che le slot machine al piano di sotto). Ma dovranno pur rendere il denaro all’organizzatore di tutto questo…



    H. ascolta 275FM. Per entrare in possesso del codice suppongo che i clienti vengano schedati. Una sorta di… abbonamento. Interessante quanto innovativo.

    Harry Hunt, quando il debito dei clienti diventa troppo alto, manda uno dei suoi dipendenti a uccidere l’uomo in questione. E lui, ovviamente, sa di chi si tratta perché ha i suoi dati schedati da qualche parte.



    Invio un altro messaggio a Lestrade (“Harry Hunt ha mandato l’assassino di Johnson, Mick Harrison, dipendente del Cavangh’s Bar. Qui sono tutti assassini su commissione -SH”).



    Caso semplice ma interessante. Esco.



    Fuori c’è Mary che piange (“Tu non capisci, ho avuto paura!”). Inutile. Non sarò io a consolarla.






    ***




    Martedì, Giugno. Ore 9.48 p.m. Caffè?

    John sulla poltrona (osserva un punto indefinito dinnanzi a sé).

    Grazie ma non ne voglio questa sera.

    Angoli della bocca verso il basso, midriasi pupillare, muscoli delle gambe tesi. Triste e deluso (verificare). Fuori piove a dirotto. Esco? Dubbio (ricordarsi di portare l’ombrello). No, resto con John. Mi siedo sulla poltrona (la mia), lo guardo. Scuote la testa. Adesso abbassa il capo. Pensa.



    “Non è finita. O almeno non ha detto così” (pausa). “Tornerà, so che tornerà” (pausa).

    (Pausa lunga).

    “Ha dato la colpa a te. Riteneva che i casi fossero per me più importanti di lei…”.

    “Lo sono, John”.

    “Sono cose diverse” (soffia).

    “Lo sono. Hai ignorato tutte le volte che ti ha chiesto di tornare a casa. Hai ignorato tutte le volte che ti ha comunicato le sue paure. I casi sono più importanti per te, è evidente”.



    Lunga pausa. Sbuffa. Vuole dirmi qualcosa, esita (ti ascolto).



    “Non volevo lasciarti solo, come sempre. Perdere te mi avrebbe fatto decisamente più male, lo sai bene Sherlock”.



    Sonata per viola in Do minore (Mendelssohn). Minuetto immaturo, futile. Prendo il violino (custodia, poggia spalla, archetto, strumento), suono ad orecchio. Venticinque minuti di pausa. Tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro appare quella viola (sembra che pianga).





    “Inizio davvero a supporre che non sarebbe stata una cattiva idea provarci con te…”.

    Ore 10.13 p.m. L’archetto si ferma di scatto sulle corde. Venticinque minuti di pausa (già passati?).

    Ride (sono confuso). Mi volto, lo guardo.



    “Non sono la seconda scelta”.



    Riprendo a suonare (Sinfonia n. 4 in La Maggiore, Mendelssohn).



    “E’ vero, non sei la seconda scelta” (si ferma, mi guarda). “Forse Mary è stata la seconda scelta…”.



    Continuo a suonare (volutamente). Sono passati quasi cinque mesi da quei baci, quelle dichiarazioni. Dolore.

    (“Soffrirò. Soffriremo entrambi”).



    Mani che mi cingono la vita, testa contro la mia schiena.

    (“Ti stancheresti”).



    “Non sei la seconda scelta, Sherlock” (abbandono il violino e l’archetto sulla superficie piana più vicina).

    (“Mi stancherei”).



    Il mio è un sentimento indefinito (ti amo). Non riuscirei a mantenere una relazione stabile con te (ti amo). Se andasse male si alzerebbe un muro (ti amo). Se andasse male te ne andresti via (ti amo). Se andasse male sarei di nuovo solo (ti amo).



    Mi volto (affondo nei tuoi occhi blu). La mia testa sulla sua testa, confusione. Lo stringo.



    Mendelssohn mi suona di nuovo la marcia nuziale tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro.

    Il suo volto verso il mio. Le sue labbra sulle mie. Adesso sono abbastanza cosciente (non c’è più la droga, non ci sono più i buchi sulla pelle).

    Le sue braccia che mi stringono in vita, le mie mani sulle sue spalle. Esitazione. Mi bacia, si allontana, poi mi bacia di nuovo. Guarda altrove. Le sue mani sul mio viso, di nuovo le sue labbra sulle mie (scontro di lingue, piacere). Lo guardo mentre mi bacia (ad occhi chiusi). La mano sinistra scende lungo il mio fianco, mi stringe a sé (di più). L’altra mano nei miei capelli, la mia sinistra sulla sua spalla, la destra sul suo volto.



    Mi bacia il collo (il suo respiro sulla mia pelle).



    Dopobarba alla menta (delicato), sapore di tè (earl grey). Sensazione della mia lingua contro la sua (piacevole).



    Si allontana (il suo naso a pochi millimetri dal mio). Un altro bacio, lieve, leggero. Non mi guarda negli occhi (ma riesco a vedere la sua midriasi pupillare). Mi prende le mani, la testa sul mio petto. Mi stringe forte.



    Interruzione (brusca).



    “Non posso” (si allontana di scatto, mi lascia le mani). “Sono stanco, davvero, è per questo che…” (si ferma) “è per questo che è successo tutto questo” (si allontana, testa bassa, va di sopra a passo svelto).



    Solo (io).



    Confuso (lui). Perché?

    E’ presto. Mary se n’è appena andata.



    Confuso (io).



    Concerto di Mendelssohn nella testa.



    Suono (meglio di no)?



    Mi dirigo nella mia stanza (“non immagini quanto ti faccia bene riposare”). Apro la porta. Ordine. Mi getto sul letto. Il mio cervello fatica a pensare in maniera sistematica. Rielaboro.

    Cosa non posso darti io?



    Confuso. Confuso sull’avvenimento, confuso su quello che provo, confuso sul mio indefinito sentimento nei suoi riguardi.



    Pensiero delle tue labbra sul mio corpo.





    La stanza è buia, gli unici fasci di luce entrano dalla finestra (sono fiochi, deboli).

    E’ una serata silenziosa. Non piove. Piacevole.



    Passano ore come se fossero minuti. Il mio cervello non riesce a scandire in maniera sistematica lo scorrere del tempo. Adesso è notte fonda (echi lontane di un orologio a pendolo).



    Rumore di passi (le scale, il soggiorno, la cucina, il corridoio). Ora è dietro la porta (eccola, piano si apre). Chiudo gli occhi.



    “Non immagini quanto ti faccia bene riposare, John”.

    “Anche a te farebbe molto bene eppure sei ancora sveglio”.



    Mi si avvicina. Si siede al mio fianco (a destra). No, ora si stende (nel mio letto, al mio fianco). Il suo petto contro la mia schiena. Braccio destro che mi cinge la vita.



    Le sue labbra sulla mia nuca (ricordi di uno sparo alla nuca visto solo un giorno fa).



    Buonanotte, John Watson.







    ***






    Dormiamo insieme ormai (ma nessuno dei due fa riferimento alla cosa prima di ritrovarci, al buio, sotto le lenzuola). Strana sensazione.



    Ieri mi ha detto che ero importante (per lui). Strana sensazione.

    Mi ha sussurrato qualcosa mentre si addormentava (“ti amo”). Strana sensazione.



    Vorrei saperti dire “ti amo” allo stesso modo in cui lo dico nei miei pensieri (perché ti amo anche io, vero?). Vorrei saperti abbracciare con fermezza.



    Strana sensazione di vuoto (che solo tu riesci a colmare).



    Aspetto (sono sul letto, sotto le coperte). E’ sabato (sarai uscito con Lestrade). (Ti) aspetto.





    Rumore di chiavi. Passi sulle scale. Passi per la casa. Ora sei dietro la porta (si sta aprendo). Sei nella stanza (riesco a vedere il tuo sorriso).



    “Tutto bene?”.

    “Direi di sì” (la mia voce è profonda).

    Chiudo gli occhi. Si muove, fa cose (ha appena aperto la finestra).

    “Cos’hai fatto?”.

    “Ho pensato”.

    Mi si avvicina (cauto).

    “…A me?” (esitazione).



    Sì, ho pensato a te. Penso sempre a te. Sei il fulcro dei miei pensieri (e risolvo i casi più velocemente per poter tornare a pensare a te).



    “Ho lavorato su un vecchio caso”.

    “La Dalia Nera?”.



    Si siede sul bordo del letto alla mia sinistra.



    “Io ti ho pensato” (mi sfiora la guancia con la mano sinistra).



    Se ci pensiamo a vicenda perché accalorarsi in questo scontro quotidiano? Perché essere così restii a dichiararci il mio indefinito sentimento e il tuo sconfinato amore? Paura, esitazione, ansia. Dolore.



    Si china su di me. Contatto leggero delle sue labbra sulle mie (sempre più intenso, sempre più forte). Scontro di lingue. La luce fioca sul comodino mi permette di osservare il suo volto mentre mi bacia. Si allontana (di poco). Le sue labbra sul mio collo, poi più su, verso l’orecchio. La mano sinistra sul mio petto.

    Piacevole.

    Affonda il naso tra i miei capelli (la mia destra sul suo collo).



    “Hai ripreso a fumare?”.

    Inutile che tu faccia domande di cui già sai la risposta. Accenno un movimento della testa associato ad un breve suono gutturale.

    Mi bacia sulla fronte (mi rimanda a quella fredda notte di Febbraio). Sorride.



    Lievi scie di profumo arrivano al mio chemiorecettore olfattivo. Piacevole.



    Mi bacia (ancora). I suoi baci diventano sempre più veementi (intimi). Una mano sotto la (mia) maglietta. Percorre l’ampiezza del mio torace con la mancina. Piacevole. Telotismo (interessante reazione del mio fisico a quel contatto). Il suo respiro si è fatto ora irregolare. Le mie mani dietro la sua testa, forte pressione delle sue labbra sulle mie (mi morde il labbro inferiore). Si allontana (ancora), velocemente si toglie le scarpe. Mi accorgo di quanto anche il mio respiro si sia fatto irregolare, svelto.



    Desiderio di John. Mai provato. Strano. Demisessualità.



    Il mio busto si solleva, si avvicina al suo. In un bacio mi butta di nuovo giù (affondo nel materasso schiacciato dal suo desiderio). Labbra sul mio lobo destro. Le mie mani si fanno spazio tra il mio corpo e il suo (cercano di sbottonare la camicia). Respiro la sua pelle (androsterone).

    Riesco a slacciare i bottoni della camicia. Le mie mani (entrambe) sul suo petto. Si piega indietro, si libera dell’indumento.



    Adesso è su di me (la sua gamba sinistra tra le mie gambe). Continua a baciarmi (intimamente). Eccitato. Sento l’erezione. Mi bacia sul collo, poi scende verso i capezzoli (succhia); scende ancora verso la pancia, il basso ventre (appaiono i primi peli pubici). Risale (inaspettato).



    Non riesco a pensare in maniera fluida. Intorno a me e dentro me c’è solo John (che mi tocca come nessun altro aveva mai fatto prima). Sensazione strana ma (decisamente) piacevole.



    Mi toglie la maglietta (freddo). Un altro bacio sulla bocca mentre (piano) cerca di tirare giù i pantaloni del pigiama. La sua erezione (visibile) preme contro quei jeans scuri.



    Tutto procede in maniera (sistematicamente) lenta. Perfezione. La sua mano sulla mia coscia destra mentre continua a baciarmi (scontro di lingue). Talvolta raggiunge l’orecchio e mi dice qualcosa (“Ti amo”).



    La mia mano sulla sua cintura (difficoltà nello slacciarla). Mi viene in soccorso (le sue mani sulle mie). Si tuffa al mio fianco (destro) e lascia che gli sfili i pantaloni (li abbandono in un punto indefinito fuori dal letto).



    Mi spinge sotto di lui. La sua erezione contro la mia (feromoni da tutti i pori). Le sue dita incrociate alle mie, altri baci.



    Con la sua mancina mi tocca l’erezione (la percorre con le dita nonostante la presenza di quel fastidioso tessuto sintetico tra la sua mano e la mia eccitazione). Sussulto. Soffoco un suono gutturale che non avevo mai prodotto prima.



    Ricordi dei miei tredici anni. L’eccitazione e il piacere erano dati dal sapere che avrei analizzato al microscopio il mio liquido seminale. Asessuale. Ho sempre creduto di essere quella punta nel triangolo di Aven (così spigolosa), e invece sono un punto indefinito nella grey area (caos lontano anni luce dal cosmos).



    Ritorno alle mani di John sulla mia (ormai libera) erezione. Piacere (quasi inibitorio). Respiro completamente irregolare. Reazioni neuro-muscolari involontarie (contrazioni ritmiche della prostata, dell’uretra e dei muscoli situati alla base del pene). Spasmi improvvisi in tutto il corpo. Piacere (inibitorio). Gemo mentre mi riverso nelle sue mani (mi bacia il collo mentre raggiungo l’apice dell’orgasmo). Sento che tutto questo non basta ma al contempo che è decisamente troppo per il mio fisico. Respiro (grandi boccate d’aria).



    John si stende al mio fianco (destro). Con un braccio mi cinge, mi stringe a sé. La mia mano attraversa prima il suo petto (mi soffermo momentaneamente sui capezzoli) poi scende verso il suo pube. Sfioro l’elastico, risalgo. Il mio corpo è ancora attraversato da scariche di eccitazione. Le mie labbra sulle sue (faccio scivolare la mia lingua nella sua bocca). Mi afferra la mano sinistra con la sua destra; lascio che mi guidi. La mia mano che esplora la sua eccitazione sotto la sua mano. Indescrivibile sensazione (imbarazzo?).



    Si libera anche di quel pezzo di stoffa.



    Ancora la mia mano sotto la sua che, adesso, esplora tutta la lunghezza (abbondanti quantità di liquido preseminale). Sotto la sua mano scopro anche i suoi testicoli.

    Seguo un’andatura lenta (indicazioni agogiche).

    Largo (mi carezza il viso).

    Adagietto (un bacio sulla fronte).

    Moderato (mi stringe a sé).

    Allegretto (occhi chiusi, respiro veloce).

    Vivace (sussurra il mio nome).

    Presto (gemiti, suoni gutturali spezzati).

    Prestissimo (i suoi fluidi caldi sulla mia mano).

    Largo (un bacio sulla bocca).



    Endorfine rilasciate dal lobo anteriore dell’ipofisi. Sensazione riconducibile a qualcosa simile al Runner’s High. [11]







    Restiamo fermi. Adesso c’è solo il silenzio.





    ***




    La testa di John scende verso la mia (rinnovata) erezione. Sono passate poche ore da quell’orgasmo. Sensazione estatica. Le mani del dottore (il mio dottore) premono contro l’asta (il pollice sul frenulo). Andante con moto, rilassante. Il viso di John è così vicino (imbarazzo?). Si avvicina con la bocca al glande (soffio sui miei tessuti erettili). La sua lingua su di esso (occhi chiusi).



    Il mondo si concentra in quell’istante (tutto sembra condensarsi in quel contatto).

    Ho chiuso le porte alle indagini, ai casi risolti e a quelli irrisolti (mi rendi così irrazionale), ho aperto qualcosa a te, solo a te (il mio cuore?).



    Indescrivibile (la sua lingua calda, ruvida, svelta, sicura). Le sue labbra attorno alla mia eccitazione (io sono lì, nella sua bocca, contro il suo palato, contro la sua lingua, sulle sue labbra). Le mie mani tra i suoi capelli. Adesso la sua lingua e le sue labbra scendono verso lo scroto (la mano sinistra mantiene l’erezione con ritmo cadenzato).



    Seguo i suoi movimenti, cerco di immaginarne le traiettorie (le tue mani come curve continue e derivabili nello spazio euclideo tridimensionale).

    L’emisfero destro comunica con il sinistro delineando le equazioni della legge oraria (s(t) = s0 + v0 t + 1/2 a t^2).



    Respiro veloce, irregolare (il mio). Il suo pollice (sinistro?) sul mio perineo. La mia testa all’indietro.

    Le sue mani contro le mie cosce, tira verso il mio petto (porto le ginocchia al petto). Le mantiene ferme. Così vulnerabile sotto il suo tocco (lo sono). Le sue mani esplorano le mie natiche (vedo il suo viso riavvicinarsi al mio corpo). La sua lingua sul mio ano. Le terminazioni nervose protestano per l’eccessiva quantità di stimoli esterni (leggeri movimenti della mia schiena). Sento la sua barba (poca). Pollice sinistro sul perineo. Le mie braccia abbandonate sul materasso (quasi non le sento, il mio cervello è concentrato solo sulle sensazioni provocate dalla sua lingua).



    (“Continua”).



    Quel pollice scivola in basso, dal perineo al mio ano (lo circonda, poi preme, entra). Le sue labbra sul mio scroto mentre conduce movimenti circolari con il dito (riflesso autonomo dello sfintere che si stringe). Estrae il pollice, prova con l’indice.



    Attimi che vengono scanditi in maniera erronea dal cervello (lunghi periodi equiparabili a brevi secondi).

    E’ così diverso da quello che ho sempre provato (l’eccitazione sessuale è così diversa dall’euforia provocata dalla cocaina). Strano. La mia mente cerca di comparare la negatività del buco e la positività delle sue mani sul mio corpo.



    Estrae di nuovo il dito, la sua lingua sul mio ano. Rimming. Adesso non è più solo sul mio orifizio anale (“Ti prego, non ti fermare”). Le sue labbra alla base del mio pene, pressione sull’ano operata da due dita (riesce a farsi spazio nonostante i riflessi autonomi dello sfintere). Trova la prostata. Lo vedo sorridere (come se avesse trovato l’Eldorado).

    La sua mano sinistra, inoperosa, continua a mantenere la mia coscia sinistra verso il petto.

    Le dita della sua destra, invece, si muovono talvolta in maniera circolare, altre volte percorrono la lunghezza del primo tratto dello sfintere. Estrae di nuovo le dita, replica la pratica del rimming. Suppongo che cerchi di abituare i miei muscoli pelvici alla penetrazione (data l’assenza di un lubrificante). Adesso prova con tre dita. Doloroso (ma piacevole al contempo). Dura poco. Avvicina il suo pene al mio ano, prova a spingere. Resistenza (aspettato).



    “Rilassati”.

    “Sono rilassato” (le mie mani dietro la nuca).



    Indefinito sentimento nei suoi riguardi; non è più amore senza sesso (pressione sull’orifizio anale provocato dalla sua lingua). Amore? Non è più senza sesso (eccitazione e desiderio provocati dalla visione del suo corpo contro il mio). Non riesco a pensare (picchi di eccitazione che interrompono il mio viaggio all’interno della mia psiche). Feniletilamine, analoghe alla dopamina (operano nei soggetti innamorati). L’amore è chimica e la sua chimica è comparabile all’anfetamina.



    Abbondanti quantità di saliva (lingua svelta). Piacevole (“Oh”).

    Secondo tentativo.

    Le mie gambe divaricate ospitano il suo corpo (caldo). Il suo petto contro con il mio (gli stampo un bacio sulla guancia). Il suo glande nello sfintere (doloroso).

    “Continuo?”

    Respiro (profondo).

    “Sì”.

    Spinge. Cerco di rilassarmi. Sensazione di dolore.

    “Fermati”.

    Lo fa. Si ferma. La sua testa contro il mio collo, affanno. Le sue dita sembra stiano contando le mie costole. Cerco di abituarmi alla sua presenza nel mio corpo (manca così poco).

    Respiro (profondo).

    “Continua”.

    Un bacio sul mio mento.

    Sento ancora la ribellione verso il pene di John da parte dei muscoli interessati (ma va meglio). Arriva in fondo. Si ferma. Di nuovo la sua testa contro il mio collo.

    Respiri irregolari.

    “Ti amo”

    Sorrido (sto davvero così bene?).

    Le mie mani tra i suoi capelli (odori inebrianti).



    Pausa.



    Inizia a muoversi (lento). A questo ritmo sembra piacevole (gli leggo in volto la difficoltà a mantenere quest’andamento).



    “Sei bellissimo”.

    (Guardo altrove, mi godo l’apprezzamento).



    Adesso si muove più veloce (nonostante sia più doloroso di prima, resta piacevole). Ha le labbra schiuse. Visione paradisiaca.



    Credo di aver iniziato a lanciare gemiti (accolti dai suoi soffocati gemiti di risposta).



    Più veloce.



    Ansima. Apre e chiude gli occhi in maniera intermittente (i miei sono invece ancora aperti, cerco di godermi ogni sua espressione, ogni sua reazione).



    Più veloce.



    Sono costretto a chiudere gli occhi. Fa male quando scende, è piacevole (smisuratamente) quando sale. Ansimo. Gemo. Credo di sentire la mia voce come un’eco lontano mentre gli comunico il mio stato (“Non fermarti, continua, sì, sì”).



    Credo di essere arrivato al limite.

    Sollevo le gambe e le porto dietro la sua schiena mentre stringo forte il suo braccio destro alla mia sinistra (all’altezza della spalla).

    Sensazione di estrema euforia che parte da dentro (“sta arrivando, sta arrivando”), poi l’apice del piacere (“John, sì John!”). Sto urlando (forse). In un gemito (lungo, pesante) si riversa anche lui nel mio corpo.

    Contatto intimo (lui dentro di me).

    Indescrivibile (siamo solo io e te, John).

    Piacere.



    Blackout nel mio cervello (le informazioni nel mio palazzo mentale viaggiano al buio). Piccola Morte.



    Esce. La sua testa sul mio petto, le mie mani tra i suoi capelli. Respiri lunghi, irregolari, profondi. L’eco di una risata mi sfiora, mi accarezza.



    Respiro il rilascio di endorfine. L’ipofisi posteriore è illuminato dall’ossitocina.



    (“Ti amo, Sherlock. Cristo, se ti amo!”)









    Sono come un vettore la cui origine parte dalla testa e di cui l’estremo libero è il cuore.







    ***




    Ti amo. So dirtelo (davvero). Ci provo. Sento che le mie corde vocali stanno per produrre un suono, cerco di portarlo fino alle estremità delle labbra.



    Un suono si spezza nella mia gola.



    So amarti, posso amarti (una mano tra i suoi capelli biondi, a tratti imbiancati). Percorro ogni yoctometro delle sue ciglia (meravigliosamente lunghe), ogni femtometro delle sue unghie (simmetriche, ordinate), ogni nanometro della sua pelle (profumata).



    C’è corrente (la porta si sta aprendo lentamente).



    Sembra che il mondo si sia fermato, adesso, tra queste braccia bianche (il mio sguardo scivola lungo quei buchi sulla pelle). Conto i segni della mia instabilità. Buchi (più sul braccio sinistro), alcuni anche all’altezza della vena cefalica.

    Ricordi di sfiorati fuori vena (azione vasocostrittiva).

    Edemi. Flebiti.



    Ti amo. Vorrei sapertelo dire proprio con la stessa spontaneità in cui riesco a comunicartelo nei miei pensieri (in quei momenti in cui sorridi, guardi altrove).



    Le tue gambe contro le mie.



    Sono come il Sole. Ti giro intorno (o era il contrario? Era il Sole che girava o era la Terra? Inutile). Tutto si ferma. Tutto tace. Ed è qui, tutto il mondo è qui, tra queste mie braccia bianche (piccoli movimenti della testa contro il mio petto).



    Ti amo. Lo sai. Non c’è bisogno che te lo dica (vero?).



    Abbiamo fatto l’amore in una piovosa notte di Giugno (piove sempre). Tutto si è fermato, adesso.



    Ora, proprio ora, ho la cura alla mia instabilità, alle mie oscillazioni che vanno dall’iperattività alla noia (non è la cocaina, non è la morfina).



    Il mondo è fermo, contempla il silenzio nella nostra Baker Street.



    Ti amo. Sei la mia cura. Ti amo.







    Buonanotte, John Watson.





    ***




    Ore 7.28 a.m. Ventidue gradi scarsi all’esterno. Fischio del bollitore (circa 90dB). Tè?

    Mercoledì, Giugno.

    Sì, tè (earl grey, molto zuccherato).

    Il busto si solleva dal letto (le gambe restano parallele al materasso, stese, rilassate). Programmo la giornata.



    Il bollitore, John Watson, fischia.



    Aspetto (mani sulle ginocchia, tutto il peso del mio corpo sulle rotule).

    Non sento più alcun fischio.



    Dolore diffuso alle articolazioni (umidità?). No. Aspettato.



    Rumore di passi che si avvicinano. Sembra che tu ti stia trascinando (quelle ciabatte che erano nuove adesso si sono allargate).



    Porta che si apre (rumore, fastidio). Due tazze; una nella mano destra, l’altra nella mano sinistra (le nocche della mano destra sono più rosse, probabile che ti sia scottato involontariamente).



    “Buongiorno. Ti ho fatto il tè”.

    “Buongiorno. Lo vedo”.



    Sorride, guarda altrove (proprio come nei miei pensieri).



    Letto matrimoniale. Troppo grande per una persona sola (dormo sul lato sinistro). Non sono più una persona sola (verificare: ricordarsi di parlare con John della situazione).

    Lenzuola e piumone sul mio lato (il tuo lato è decisamente più ordinato).



    Si siede al mio fianco, mi porge quella tazza di tè che mantiene nella sinistra (bollente).

    Inspira, espira. Inspira. Poi espira di nuovo.

    Soffia nella tazza.

    Aspetta che si raffreddi.



    “Ti amo, Sherlock” (bacio sulla guancia, inaspettato).

    Sorrido (difficoltà nel comunicarti il mio amore). Strana sensazione di inadeguatezza.



    Beviamo. Tutto è tranquillo. Guarda, il mondo ha ripreso a girare (nella caotica Baker Street). Mantengo la tazza con la sinistra. Bevo.



    Fuori piove (il mondo gira).



    “Mi ami, Sherlock?”.

    Occhi (grandi). Supplichevoli (oserei dire). La mia destra sale alla sua spalla, gli sfioro i capelli dietro la nuca. Lo avvicino a me. Gli stampo un bacio sulle labbra (calde per il tè).

    Facile.



    Sorride. Contento io e contento lui (memorizzare questo espediente).



    Il mondo ha ripreso a girare.



    “E’ meglio che mi sbrighi, ho il turno presto in ambulatorio”.

    “Hm”.

    Risposta atona (non andare via, John).

    “Io credo proprio che farò una visita a Molly. Mi aveva detto che aveva delle cose interessanti da mostrarmi riguardo due corpi che sono arrivati ieri all’obitorio”.


    “Ti divertirai” (sorride, occhi bassi).

    “Lo sai che è un’affermazione azzardata”.

    Si alza dal letto, si avvicina alla porta.

    “Ti divertirai di certo più di me. Io dovrò visitare vecchiette ipocondriache che credono di morire nonostante mostrino solo i sintomi di una debole e banale influenza”.

    “Di’ loro che stanno per morire e liberati di questo peso. Inventati una malattia incurabile apposta per loro. Questa sera mangiamo fuori, John”.

    Ride (divertito). Credo che mi voglia dare dell’insensibile (bonariamente). Lo amo. Lo amo infinitamente.

    “Sherlock, comunque mangiamo sempre fuori casa. Detto così sembra che tu mi voglia portare a cena fuori, una sorta di appuntamento galante… dico sul serio!” (continua a ridere).

    Il suo sorriso è meraviglioso.

    La sua mano sulla maniglia della porta, esce. Andrà a prepararsi (ci metterà pochissimo, proprio come qualsiasi uomo dal passato militare).



    Il mondo ha ripreso a girare (eccolo concentrato in quel sorriso dai denti bianchi).



    Il mio pensiero vola sulla tua sagoma avvolta in quel camice bianco (che ti rende così grande agli occhi del mondo, come se fossi un salvatore, come se fossi un dio). Vecchiette che ti chiederanno di auscultare loro il cuore, ormai stanco di vivere ma restio a lasciare questo mondo; madri impaurite che ti chiederanno di osservare quelle macchioline rosse sul viso dei loro piccoli (l’unico vero tesoro nella loro vita); uomini (tutti forti fuori dalla tua stanza) che ti chiederanno di curare loro quella fastidiosa bronchite. Forse qualcuno sta per morire. Forse qualcuno scoprirà di avere qualche terribile male, ma riuscirai a salvarlo diagnosticandogli in tempo i sintomi.

    Come un salvatore, come un dio.



    La porta si apre, un ultimo saluto (quel meraviglioso sorriso).



    La mia mano afferra il cellulare alla mia sinistra, scrive.



    Questa sera. Angelo. -SH

    Me lo immaginavo. In ogni caso puoi ancora urlarlo, ti sento. Sono per le scale. -John Watson

    Torna su. -SH

    Lo farò questa sera quando, finalmente, sarò di nuovo tutto per te -John Watson




    La porta dietro di lui si chiude (forte).

    E il mondo, John Watson, guardalo: ha ripreso a girare.





    ***




    Da Angelo, finestra. Ricordi del nostro primo giorno insieme (conoscenti da poche ore).

    Cosa siamo adesso?

    Ricordi di quel taxi, di quelle corse, di quelle pillole.

    Una coppia. Decisamente dei compagni. Strano. Sensazione di inadeguatezza.

    Cosa siamo stati? Conoscenti, coinquilini, colleghi, amici, migliori amici… adesso compagni. Suona come una parola nuova, appena imparata.



    I suoi occhi nei miei. John Watson è il ritratto dell’ordinarietà (lo guardo incuriosito mentre tenta di propormi le sue frasi idiomatiche da inguaribile romantico). Sorride. Ha i capelli più lunghi del solito (li taglierà in questi giorni). Anche io dovrei tagliare i miei (li spunterò da solo con le forbici della mia padrona di casa).



    “Com’è andata all’obitorio?”.

    “Discretamente”.

    “Cioè?”.

    “Osservazione e deduzione. Dopo pochi minuti i corpi non erano più così interessanti”.

    “Ah, capisco” (annuisce interessato).

    Arrivano alcuni piatti. Noioso. Ho così poca voglia di mangiare (ma so che se non mangerò ora finirò per divorare avanzi e scarti non commestibili nel frigo di casa, di notte, allontanandomi da John per qualche minuto).



    Serata lenta. Sento che sto pendendo dalle sue labbra (come quando la mia mente pendeva da quell’ago sottile). Come la cura. Sei la mia cura.



    Conflittualità.

    Dipendenza da quei sorrisi, da quelle carezze, da quella presenza, ma al contempo inalienabile sensazione di inadeguatezza. Dubbio sui miei sentimenti (è amore? Deve).



    Indefinito sentimento nei tuoi riguardi, John Watson. Difficoltà nel riuscire a esprimerti tutto il mio astratto impulso affettivo nei tuoi confronti. Incedibile sensazione di inidoneità.



    “Sherlock, mi stai ascoltando?”.



    Nella mia mente vedo i miei occhi sparire, la mia bocca risucchiata da un enorme e curioso punto interrogativo (visione fastidiosa, confusione, dolore).





    ***




    Ore 1.44 a.m. Giovedì, Giugno.

    La mia testa sul suo petto. Rifletto. Cerco di comparare le emozioni scatenate da questo contatto con sensazioni già conosciute e catalogate (con lo scopo di comprendere meglio il mio indefinito sentimento nei suoi riguardi).



    Nono piano, corridoio 2, stanza 8: i miei quattro anni; le braccia di mia madre, la mia testa sulla sua spalla (come la mia testa sul tuo petto).

    Decimo piano, corridoio 9, stanza 57: i miei sette anni; le mani di mia madre sulle mie mentre mi guida verso il microscopio (come le mie mani sotto le tue su quella calda erezione).

    Undicesimo piano, corridoio 3, stanza 13: i miei tredici anni; le mani di mia madre che battono forte dopo aver risolto uno dei miei primi casi (come i tuoi complimenti dopo aver esposto una deduzione).

    Dodicesimo piano, corridoio 1, stanza 1: i miei quindici anni; le mani di mia madre che disinfettano delle evidenti ferite sulle tempie, ormai troppo difficili da nascondere (come le tue mentre stringono una fasciatura o ispezionano il mio corpo alla ricerca di fratture da me volutamente nascoste).



    Come mia madre. John Watson come mia madre.

    Non ti chiamerò mamma.

    E’ così strano.

    Vorrei saperti dire ti amo e invece il mio cervello ricollega il mio indefinito sentimento nei tuoi riguardi a mia madre. Perché? Sovrappongo i tuoi capelli (lisci e biondi, a tratti bianchi) a quelli di mia madre (lunghi e ricci, neri come il corvo). Confuso. Mi ricorda i ritratti nella mia casa d’infanzia: signore che non ho mai conosciuto e che spiavano le mie dita curiose che investigavano oggetti d’uso comune.



    Come mia madre.

    No, non finirà così.



    Tredicesimo piano, corridoio 5, stanza 26: i miei diciannove anni. La rottura definiva di quel rapporto. Ricordi di urla, di pianti. Ricordi della mia passività, della mia insensibilità. Ricordi di quel vuoto. Ricordi di valigie. Ricordi di noia. Ricordi di dipendenze. Ricordi di altre siringhe.



    No, non finirà così.



    Non sei come mia madre, John Watson. Devo costruire altre torri nella mia mente, luoghi idonei per conservare (e non dimenticare) questo indefinito sentimento.



    Accettare la diversità di tutto questo. Schematizzarla e dare ad essa un nuovo nome, coniarne uno nuovo a cui l’uomo non ha mai pensato prima.





    Dita (le sue) tra i miei capelli (si muovono, piano).



    Mendelssohn compone nuove sinfonie nella mia mente (mai sentite, diverse da tutto ciò che l’uomo è capace di immaginare).







    Buonanotte, John Watson.





    ***




    Ore 11.43 p.m. Tè?

    Martedì, Agosto.

    No, non è il momento adatto per una tazza di tè.



    Ho perso la concezione dello spazio (non sento più il volume del mio corpo). Mi bruciano il volto quelle lacrime (non mie) sulle guance (le mie).



    Ricompongo lo spazio intorno a me.



    Letto sotto di me. Finestra aperta. Luci spente. John alla mia destra che parla (difficoltà nel seguire le sue parole), che piange (mi piange sul volto). Perché?



    Ritorno a qualche ora fa.



    Lite. Parole forti nei miei riguardi (“non puoi possedermi come se fossi un oggetto”). Parole da cui non ho saputo difendermi in maniera razionale (“Non mi comunichi il tuo amore perché non mi ami, sperimenti su di me come se fossi l’ennesima cavia”). Dolore. Confusione.

    Ricordi di una rabbia che non provavo da anni.

    Le mie mani su oggetti che dopo qualche secondo erano al suolo.

    Ricordi del suo volto (difficoltà nel capire la sua espressione).

    Le mie mani che si aggrappano ai suoi indumenti, il mio corpo che crolla sul suo (il volto che affonda nel suo stomaco mentre scivolo sempre più in basso).

    Disperazione.

    Forte pressione su una parte indefinita del mio corpo (spinta).

    Le mie mani tra i miei capelli, occhi che fissano un punto indefinito della stanza.

    Rumore di una porta che sbatte. Rumore di qualcosa che si frantuma nel mio corpo.

    Resto fermo in quella posizione per un tempo indefinito. Riprendo a respirare in maniera regolare. Mi guardo intorno e ci sono solo oggetti rotti che qui giù mi fanno compagnia (Billy ad una distanza indefinita).

    Improvvisa pressione sulle mie spalle (ritorno nel mondo). La signora Hudson che mi stringe. Sono nella (sua) cucina (da quanto tempo?).

    Parole che entrano ed escono dal mio corpo. Vuoto e confusione al contempo. Voglia di zittire le urla di tutti i ricordi nel mio palazzo mentale (anche Mendelssohn mi suona nella testa con un pianoforte scordato e un violino spezzato).



    La mia mente si solleva dai ricordi, ritorna svelta al presente. Siamo di nuovo nello stesso letto (così vicini, così stretti l’uno contro l’altro). Sorrido al pensiero di una riconciliazione che non ricordo. Improvvisa sensazione di freddo sulle guance (ritorno alle sue lacrime). Cerco di ricomporre le sue parole (vedo la sua bocca muoversi, le sue palpebre serrarsi sugli occhi, le sue mani stringersi al mio petto). Mi giungono echi lontane (“abbiamo davvero varcato quel limite”), frasi che non riesco a collegare (“ho anche parlato con Mary dell’accaduto”), frasi che però sento pesanti e difficili da mandare giù (“come riuscirò a guardarti in faccia come facevo prima?”). Voglia di ricominciare (“nella vita reale non c’è tempo di seconde possibilità, Sherlock. E sto male proprio perché so che dovremmo costruire da zero quello che abbiamo appena distrutto”). Sento la difficoltà nel pronunciare quelle parole così aspre (le sue lacrime amare e salate sul mio volto).



    Voglio piangere anche io con te, John. Voglio urlarti che ti amo. Voglio cancellare questo giorno.

    Sarà tutto inutile.

    Voglia di ritornare nell’oblio.



    Sento che parla di noi, poi parla di Mary (“Mary è un’amica; la nostra relazione è finita ma siamo riusciti a salvare il salvabile. Ma io con Mary non ho mai avuto il rapporto che avevo con te, io con Mary non ci abitavo, io con Mary non ci lavoravo. Mary è fuori dalla mia vita, tu invece ci sei troppo dentro sia per tagliare i ponti sia per ricostruirli").



    Come mia madre.



    Tredicesimo piano, corridoio 5, stanza 26: i miei diciannove anni. La rottura definiva di quel rapporto. Ricordi di urla, di pianti. Ricordi della mia passività, della mia insensibilità. Ricordi di quel vuoto. Ricordi di valigie. Ricordi di noia. Ricordi di dipendenze. Ricordi di altre siringhe.



    E domani sarà il tempo di un altro ago (sento già la morfina che lenta arriva al cervello). E domani sarà il tempo giusto (per l’oblio). Sì, lo sarà domani.

    Adesso resto ancora tra le tue braccia, sotto le tue lacrime.

    Aspetto domani.



    Domani è un altro giorno (il mondo continuerà a girare come prima, John Watson?).





    ***




    Ore 5.27 a.m. Caffè?

    Venerdì, Gennaio.

    Non ne voglio.



    Compongo musica (triste, a detta di John). Pensiero di Irene Adler.



    Ho una pulce nell’orecchio (la Dalia Nera?).



    Non c’è tempo per la Dalia Nera quando qualcuno si dimostra così interessante (La Donna).



    Quella pulce continua a torturarmi (Mendelssohn mi buca il cervello con l’archetto del violino). Cosa vuoi? Penso. Ti concedo un paio di secondi per espormi i tuoi problemi. La mia mente percorre veloce scale di pietra, oltrepassa celere grandi androni, rapida esplora torri e corridoi. Ho capito. Vuoi parlarmi del mio dottore (lo è sempre stato e sempre lo sarà).



    E’ tornato con Mary (dopo essere stato lasciato da quella persona insignificante che era al suo fianco nel periodo natalizio). Mary sostiene (o almeno è ciò che lascia intendere dalle sue frequenti e fastidiose lettere d’amore) che John sia realmente la sua dolce metà perché, qualunque siano i problemi che avvengono o avverranno, loro due torneranno sempre insieme. Dopo Sarah Sawyer (il suo nome lo ricordo bene perché, quando cerco John all’ambulatorio, sono sempre costretto a passare sotto il suo consenso) ci fu proprio lei, Mary Morstan (il suo nome lo ricordo bene perché è stata una cliente), poi ci fui io (l’unico uomo tra tutte le donne che hai avuto nella tua vita, vero John?), successivamente Mary (di nuovo), poi quella donna insignificante (e superficiale), e infine ancora Mary.



    Mi sento emotivamente distrutto.



    Il mio indefinito sentimento è sempre stato amore, e lo so bene perché lo è tutt’ora. D’altro canto la difficoltà nel comunicarglielo non ha fatto altro che scavare un apparente vuoto tra me e lui (le vere tessere che si incastrano di quel puzzle enorme che è la nostra vita). Sentimento di inadeguatezza inalienabile (circa sei mesi fa, anche più), instancabile presenza del timore di dividerci (è successo), di soffrire (è successo).



    Filofobia. [12] L’alessitimia non ha aiutato (sono davvero alessitimico?).



    Suono (musica triste). E’ per te, non per La Donna.



    Mendelssohn estrae lentamente l’archetto dall’emisfero sinistro (sento che ha lasciato un buco enorme).



    Accarezzo con l’archetto il violino con estrema delicatezza (per te, John). Immagino il suo corpo che si gira e che si rigira nel suo letto al piano di sopra (supplicando che io la smetta).



    Sto suonando qualcosa di nuovo solo per te, John. E’ musica triste (domanda o affermazione?).

    E’ per te.



    Buonanotte, John Watson.





    ***




    Distruzione emotiva.

    La mia mente (oh sì, mi sembra di vederla) viene tirata da una parte da Irene Adler, dall’altra da John Watson.



    Sto chiudendo le stanze (nel mio palazzo mentale) che contengono il ricordo di quell’esperienza (di cui sento la difficoltà nel descriverla verbalmente anche a me stesso). Concluderò questo caso e urlerò a John di restituirmi la scatola, la mia scatola, la mia cura (non è più dove l’avevo lasciata l’ultima volta).



    Immagino i posti dove abbia potuto nasconderla.



    Un uomo come John (ordinario) la nasconderebbe in posti facili da tenere d’occhio quotidianamente, magari luoghi dove conserva oggetti di uso giornaliero.



    L’armadio. Il cassetto della biancheria. Il comodino. Mi azzardo a dire: dietro uno dei suoi libri, al piano di sopra (mossa forse troppo scaltra e meditata per un uomo pratico e d’azione come John).



    Io avrei aperto la scatola e nascosto gli oggetti in luoghi separati. Sarebbe stato più difficile per l’interessato trovare tutti gli oggetti. Inoltre non li avrei nascosti, li avrei messi vicino a oggetti simili o di simile utilizzo (la soluzione salina tra i barattoli di vetro nella dispensa in cucina). Luoghi dove tali oggetti passano inosservati all’occhio di chi guarda ma non osserva (sento già il cervello di John suggerire di ignorare i due flaconcini perché non è ciò che sta cercando in quel momento).



    Chiuderò il caso (come sto chiudendo quelle stanze nel mio palazzo mentale) e ritornerò alla cocaina.



    E adesso (mentre John mi cammina dietro farfugliando cose che non reputo importanti) a distrarmi è solo la neve che vuole sciogliersi sui vetri del 221b.



     
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